giovedì 24 luglio 2008

chi può e chi non può

Certe parole stanno spesso sulla bocca delle persone sbagliate. Penso, ad esempio, a discriminazione. Ogni scusa è buona per tirarla in ballo e, una volta infilata nei discorsi, riesce quasi sempre a far apparire un campione o un martire della lotta per i diritti umani chi la usa.
Io non la uso quasi mai. E’ una sorta di sciopero lessicale. Parto dal presupposto che l’unico modo per ridare un senso a dei termini che, ormai, si usano “per il loro suono, non per il loro significato” (come i “sempre” e i “mai” degli amanti in una bellissima poesia di Vicente Aleixandre), è fare a meno di usarli finché non si è proprio costretti a servirsene per mancanza di alternative.
La maggior parte delle persone che denuncia pubblicamente di aver subito discriminazioni, può farlo perché ha accesso ai mass media: quindi, ci andrei cauto prima di prenderli sul serio. Finché uno può far sentire la propria voce, non è discriminazione: tutt’al più è discriminazione all’acqua di rose. Per subire una vera discriminazione, occorre essere del tutto indifesi, e quindi non poter neppure trovare ascolto. Provate a chiedere in giro, alle persone che incontrate casualmente, se hanno mai subito discriminazioni in vita loro: almeno il 99% vi risponderà di sì. A prenderli tutti sul serio, si arriverebbe a credere che le nostre città siano piene di SS e di “cavalieri” del Ku Klux Klan.
Personalmente, non ho mai discriminato nessuno. Anche se il mio status di maschio, bianco, eterosessuale, non portatore di handicap, borghese (però non sono anglosassone e neppure protestante, quindi non posso fregiarmi del titolo di WASP) fa di me il soggetto adatto a essere accusato di chissà quali crimini in questo campo. Invece no, ho avuto tante buone occasioni per discriminare mezza umanità, eppure non l’ho mai fatto. Saranno le abitudini mentali prese da ragazzo, quando praticavo molto sport, ero un podista di modestissimo livello e giocavo in una squadra di calcio decisamente scarsa, ma ho sempre avuto una netta predisposizione a schierarmi dalla parte dei perdenti e degli sfigati, senza vergogna, come se fosse naturale trovarmi là.
Mai approfittato della situazione con una donna, anzi. Il massimo che sono arrivato a fare con loro è stato farmi prendere consapevolmente per il naso e di godere nel farmelo fare (come il protagonista della canzone Vipera: “e vo’ il suo bacio che mi rende vano, la sua perfidia che mi fa piacere”). Lo stesso con gli extracomunitari, che ho avuto spessissimo come compagni di viaggio nella mia vita da pendolare in seconda classe e con cui sono stato meglio che con molti italiani. E non parliamo dei gay: se qualcuno vuol provare a determinare il fardello emotivo che può toccare a un insegnante coscienzioso, deve provare a immaginarselo mentre protegge o difende un alunno o un collega gay (perché, sì, ne esistono e alcuni neppure si nascondono; e, checché ne dica Fini, non traviano nessuno) dall’ostilità del “branco” che aspettava solo un “diverso” da angariare. Quanto ai diversamente abili, non posso davvero rimproverarmi nulla, non mi sono arreso neppure davanti al duro impegno di imparare, di volta in volta, le varie espressioni politicamente (o forse dovremmo dire ipocritamente) corrette che si coniano quando quelle precedenti sono assorbite dal turpiloquio del parlare quotidiano (suppongo che la prossima sarà: “perfettamente normali”).
Qualche tempo fa, Michele Serra scrisse che il razzismo sarà veramente finito solo il giorno in cui un bianco potrà dare dello stronzo a un negro senza che nessuno si faccia sconvolgere dalla cosa. Sono d’accordo, mi piacerebbe che quel tempo fosse già arrivato. Allora potrei scrivere senza scrupoli ciò che penso dell’attuale ministro della Funzione pubblica, elaborando la battuta più malvagia che posso sull’argomento: e cioè che trovo lodevole per l’integrazione il fatto che abbiano scelto proprio un freak per la carica, ma che almeno avrebbero potuto sceglierne uno in cui la deformità si limitasse all’aspetto fisico.

Ma, tutto sommato, penso che posso permettermi ugualmente di scriverlo. L’ho detto, io sono pulito. Non ho nulla da nascondere. Potete passare a setaccio ogni secondo della mia vita. Non trovereste un’azione discriminatoria verso nessuno. Insomma, come direbbe la buonanima di Angelo Massimino, cui non a caso hanno intitolato il vecchio Cibali: “Ci sta chi può e chi non può: io può.”
Il ministro Brunetta, invece, non può. Se in Italia la discriminazione fosse considerata davvero un crimine e non solo una scusa per parlare a vuoto e farsi belli, un tipo così non solo non farebbe il ministro, ma probabilmente starebbe in galera. Se c’è una cosa più insulsa del fare di tutta l’erba un fascio, dando dei “fannulloni” in blocco a una categoria che comprende milioni di persone (con l’aggiunta di proponimenti tipo: “Colpirne uno per educarne cento”, tanto perché sia chiaro che si ritiene di avere a che fare con una razza inferiore), è farlo per i motivi più pretestuosi che si possano immaginare. L’argomento era nell’aria da un pezzo, ed era stato sollevato da più parti in campagna elettorale. Diciamo la verità, poi: il problema esiste e non si può negare. Io stesso, nella stagione di maggiore illusione e follia della mia vita, la campagna elettorale del 2006, lasciai un contributo al riguardo su “La fabbrica del programma”, che esprimeva perfettamente il mio punto di vista. Forse si può ancora leggere ma, in ogni caso, ne ho conservato una copia e, più tardi, lo aggiungerò a questo blog.
Ma un conto è sollevare un problema, un altro è ingigantirlo a dismisura per ricavarne dei vantaggi e per distogliere l’attenzione da altre situazioni. Quando personaggi come Montezemolo, la Marcegaglia e tutto il resto del gruppo dirigente di Confindustria, ossia tutta una banda di magnaccia che tra il 2001 e il 2006 si sono ingrassati a dismisura sulle nostre spalle (non che non lo facessero anche prima, ma lì hanno perso ogni freno inibitore: ci sono studi che parlano di palate di miliardi spostati in quel periodo dalla ricchezza di chi vive percependo uno stipendio a quella di chi invece campa di profitti, interessi e rendite), ne parlano come di una emergenza nazionale, sanno benissimo di poterlo fare senza essere tacciati pubblicamente di ridicolo o malafede perché possono appoggiarsi a una maggioranza parlamentare abbastanza forte e coesa da prendere e portare avanti iniziative quali normalmente si vedono solo negli stati totalitari. Perché di questo dobbiamo subito renderci conto, se non lo abbiamo ancora fatto, noi dipendenti pubblici: è in corso una caccia alle streghe (per carità, mica una sola: pensiamo ai clandestini, ai rom, tra un po’ ai meridionali al Nord) e l’obiettivo è quello che ha sempre guidato tutte le cacce alle streghe: togliere e arraffare. Il favore di un elettorato affamato di briciole e caratterialmente immaturo al punto da schierarsi in massa dal lato di chi non fornisce idee e progetti, ma solo “nemici” con cui prendersela, non sarà mai compromesso da iniziative simili.
Non è un motivo per subire rimanendosene con le mani in mano, ma su un punto dobbiamo rassegnarci: la Storia è sempre andata così, specie in Italia. Tutte le coscienze hanno un prezzo, ma nel nostro Paese è perennemente stagione di saldi.

Veniamo alle ragioni pretestuose cui accennavo prima. Per settimane, da tutti gli organi di informazione, ci hanno letteralmente spaccato i cabasisi (Montalbano docet) sulla faccenda delle troppe assenze per malattia dei dipendenti pubblici rispetto a quelle dei lavoratori del privato. Sono state esibite cifre inequivocabili al riguardo dai vertici (vistosamente indignati) di Confindustria. I soliti leccapiedi prezzolati dell’informazione (Clarinetto di Animal Farm non sarebbe mai riuscito a scrivere su Libero o su Il Giornale o su La Padania: non sarebbe mai stato abbastanza servile) hanno tirato fuori tutto il repertorio delle notizie sugli uffici pubblici risultati deserti ai controlli, sugli uscieri che ufficialmente risultano in agonia mentre in realtà stanno facendo un altro lavoro in nero (probabilmente, si suppone, per pagarsi il turismo sessuale nei paesi in cui si pratica la prostituzione infantile), sulle impiegate che marcano il cartellino e poi vanno a farsi impupazzare dall’estetista (in modo, è facile immaginarlo, da poter guadagnare di più facendo le squillo di alto bordo o le attrici di cinema porno), e chi più ne ha più ne metta. La posizione unanime è stata: non soltanto in Italia si pagano troppe tasse, ma la maggior parte serve a mantenere un esercito di parassiti, che sono anche dei degenerati morali.
Sarà. Ma intanto, mi sarebbe piaciuto che dai sindacati (gli unici che sono ancora abbastanza forti e visibili da farsi sentire) fosse arrivato almeno un tentativo di mostrare l’inattendibilità di certe conclusioni. Io non sono nessuno ma, riflettendo razionalmente sulle cifre delle assenze per malattia tra lavoratori pubblici e privati, mi sono fatto qualche idea su come si possa spiegare almeno parte della differenza senza criminalizzare nessuno: o, al contrario, criminalizzando i veri criminali.
La prima osservazione è che il ricambio del personale pubblico, da almeno 20 anni a questa parte (mi pare che il primo “blocco delle assunzioni” in Finanziaria risalga addirittura al 1987), è stato piuttosto lento. Dunque, l’età media dei dipendenti pubblici è piuttosto alta, certo più alta di quella dei privati. E non occorre essere titolari di una cattedra di Epidemiologia all’Università per sapere che i tassi di morbilità (cioè la facilità con cui ci si ammala) crescono con l’età, particolarmente nella fascia che comincia dopo i 40 anni. In altre parole, nella situazione presente, è fisiologico, almeno entro certi limiti, che i lavoratori pubblici si ammalino più dei privati.
Seconda osservazione. Questa me l’ha suggerita la lettura del libro Una paga da fame, di Barbara Ehrennreich (ovviamente, leggetelo: è uscito in tascabile da Feltrinelli e costa meno di una pizza). Forse non sono i pubblici a fare troppa malattia, sono i privati che ne fanno troppo poca. Il racconto della Ehrenreich (una giornalista che ha provato per alcune settimane a vivere come un’operaia precaria) sulla sua esperienza in un’impresa di pulizie, resta impresso soprattutto per la descrizione della sofferenza fisica sua e delle sue colleghe, della loro assoluta dipendenza da farmaci di ogni tipo, dal loro terrore di far conoscere al “padrone” (per il timore di essere licenziate), non solo le loro malattie ma anche i loro infortuni, compresi quelli sul lavoro. Mi direte: ma lì stanno in America, è diverso da qui. Credete? Contenti voi… Purtroppo, è diverso solo là dove valgono tutele tipo quella rappresentata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che scatta solo nelle imprese che hanno più di 15 dipendenti. E queste costituiscono solo una minima parte di quelle italiane. Nella maggior parte dei casi, le tutele sono molto, molto ridotte. Provate a leggere Senzadiritti, di Giorgio Ricordy (un altro tascabile Feltrinelli che costa meno di una pizza) e fatevene un’idea. Io, a dire il vero, non avrei avuto neppure bisogno di affaticarmi a leggere tanto: uno dei pochi vantaggi di passare tutta la propria vita in quartieri popolari e viaggiando in seconda classe, sta nel farsi di prima mano una vasta cultura sulla qualità della vita di quelli più disgraziati di te. Che nel privato si possa essere licenziati perché ci si ammala o perché si resta incinte, siamo in tanti a saperlo: ma non facciamo congressi in Hotel a 5 stelle nelle migliori località turistiche come Confindustria, quindi possiamo soltanto raccontarcelo tra di noi.
Poi ci sono le esperienze dirette. A distanza di parecchi anni, ho ancora gli incubi al pensiero delle pressioni psicologiche che ho subito da giovane, quando insegnavo in una scuola privata: eppure avevo avuto la fortuna di trovarmi in una scuola dove, almeno, si cercava di rispettare gli aspetti formali della legge (non per niente, chiuse nel giro di pochi anni). Oggi che lavoro nella scuola pubblica, sono un semplice spettatore di come si sta “sotto il padrone”: penso, ad esempio, a quei poveri “assistenti materiali” che dovrebbero occuparsi, insieme agli insegnanti di sostegno, degli alunni diversamente abili non sufficientemente autonomi. Gli assistenti materiali sono dipendenti privati di ditte o più spesso cooperative che hanno ottenuto l’appalto del servizio dagli enti territoriali: in genere, hanno seguito un corso ad hoc per potersi occupare di persone non autosufficienti. Il tipo di lavoro è certamente ingrato ma non si può definire poco qualificato: non è il lavoro che possa fare chiunque, improvvisandosi. Tutti gli assistenti materiali che conosco, hanno contratti di lavoro delle forme più precarie, ignobilmente sottopagati, e aspettano ancora il pagamento di stipendi arretrati da mesi, talvolta da anni. Tutti si indignano a leggere per l’entità (davvero impressionante) dei finanziamenti che gli enti territoriali pagano alle ditte o alle cooperative che li hanno assunti, e giustamente si domandano perché a loro diano così poco e con tanto ritardo. Ma nessuno che conosco si è mai ribellato: anzi, quando parlano del “padrone”, abbassano sia la voce, sia lo sguardo, come per un riflesso condizionato. Sono pronto a scommettere che il loro tasso di assenteismo per malattia sia bassissimo, ma non mi sembra che il loro sia un esempio da proporre alla totalità dei lavoratori.
L’ossessione delle difficoltà materiali quotidiane, la mancanza di prospettive future, la frustrazione delle continue mortificazioni subite e l’abitudine a vivere una realtà in cui il servilismo è un merito, spingono facilmente le persone verso livelli di abbrutimento come non se ne dovrebbero più vedere in Occidente e nel XXI secolo. E una conseguenza di tale abbrutimento è una perdita di valori che mortifica la vita stessa. Nella primavera del 2001, ho sentito dire da due precari della scuola, per giustificare la loro scelta filo-berlusconiana alle elezioni politiche: “Schiattiamo noi, devono schiattare pure gli altri”. Non sono solo i “padroni” a esultare per la limitazione dei diritti (che loro chiamano privilegi) dell’impiego pubblico: ma anche gli stessi dipendenti privati, evidentemente ignari del fatto che, così facendo, si apre la strada perché in un futuro non lontano si tolga (o non si dia) qualcosa anche a loro.
Ma torniamo al nostro tema principale. Come Brunetta combatterà l’”assenteismo” dei fannulloni pubblici. L’elenco dei provvedimenti, a leggerlo, suona draconiano: ma, nella sostanza, è semplicemente ridicolo. La norma delle visite fiscali dopo un solo giorno di assenza esiste già da anni, ma è spesso disattesa dalle amministrazioni perché comporta dei costi non trascurabili ed è opinione generale che il numero dei fannulloni non sia tale da giustificarli: insomma, per recuperare 1 euro sgamando un falso malato, occorrerebbe spenderne 5 o 10 di controlli. Nel privato, un manager che assumesse iniziative con simili conseguenze, sarebbe probabilmente retrocesso a spugna per inumidire i francobolli: ma, si sa, in Italia non si diventa manager per le capacità, bensì per le parentele e le amicizie. Essere inetti e occupare posti di importante responsabilità non è una vergogna ma uno status symbol. In questo, diciamo la verità, Brunetta non è peggio di tanti altri, molti dei quali (penso a certi amministratori delegati della Fiat, per esempio) sono costati alla collettività molto più di lui.
Poi c’è la faccenda dell’orario di reperibilità obbligatoria, esteso in modo abnorme (per i soli dipendenti pubblici: ma siamo sicuri che la Costituzione lo consenta?). A cosa serve? Non si sa. In teoria, dovrebbe scoraggiare quelli che fanno il doppio lavoro ma, quanto a questo, le fasce orarie precedenti (10-12 e 17-19) erano già opportunamente calcolate in tal senso: tant’è vero che, per esperienza personale, quando stai in mutua, anche se sei in grado di uscire, non riesci a fare quasi nulla fuori casa. Riflettendoci, mi sono fatto un’altra idea: serve a rubacchiare qualche spicciolo a quegli sprovveduti (si spera pochi) che non avranno la cura di farsi annotare dal medico l’orario della visita sul certificato di malattia (infatti, fino a nuovo ordine, anche durante l’orario di reperibilità si può uscire per sottoporsi a visite o terapie mediche, purché i sanitari giustifichino l’uscita). Credo che la spiegazione sia davvero questa, che mi dà anche la misura delle persone con cui abbiamo a che fare: gente che a parole pretende di cambiare il mondo e passare alla Storia ma poi non disdegna i più meschini mezzucci pur di estorcere qualche euro a chi capita, magari a qualche disgraziato che già fatica ad arrivare a fine mese.
La trovata più geniale, invece, è quella sui certificati di malattia: che, per prognosi superiori a 10 giorni o dalla terza assenza nel corso dell’anno, dovranno essere rilasciati da strutture sanitarie pubbliche. Non so quanta gente si faccia fare i certificati pagando un medico privato quando può benissimo farseli fare gratis dal medico di base. Confrontando gli onorari dei medici privati con gli stipendi dei dipendenti pubblici, sarei incline a rispondere: nessuno che sia sano di mente. All’inizio, tuttavia, si era pensato che Brunetta ignorasse il ruolo dei medici di base nell’ambito della sanità pubblica (per uno che fa il docente universitario e il ministro, sarebbe quanto meno una vergogna), tant’è vero che lo stesso Ufficio Personale Pubbliche Amministrazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica (ribadendo peraltro quanto già affermato nel 2002 dal Tar del Lazio) ha ritenuto doveroso (parere del 04.07.2008) precisare che i certificati sottoscritti dai medici di base sono validissimi quali certificati rilasciati di struttura sanitaria pubblica. Si era diffuso addirittura un allarmismo generale circa la necessità di ritrovarsi costretti ad andare al Pronto Soccorso (giusto per esserne cacciati a calci da medici e infermieri impegnati con malati e infortunati in pericolo di vita) solo per giustificare la malattia. Per fortuna, sembra che ogni tanto qualcuno si ricordi che viviamo ancora (non si sa per quanto) in uno stato di diritto e che un qualsiasi deficiente non può fare il bello e il brutto tempo a seconda di ciò che gli dice la testa solo perché serviva un pagliaccio per fare il ministro e, avendo già occupato tutti i clown con altre cariche, nell’ultimo posto rimasto ci hanno messo un nano.

lunedì 21 luglio 2008

autodafé

Qualcosa si sta smuovendo dentro di me… qualcosa di terribile. Se fossi Francesco Paolantoni, darei la colpa ai peperoni che ho mangiato ieri sera, ma non sono Paolantoni e, soprattutto, ieri sera non ho mangiato peperoni.
Lo so, in realtà, cos’è che mi turba tanto, cosa mi sta dilaniando in un modo così atroce: è la coscienza, che mi rimorde al pensiero di tutte le atroci malefatte che ho commesso.
Non ce la faccio più, non posso continuare a tenermi dentro un peso simile… ho deciso che è il momento di liberarmi e lo farò adesso, accada ciò che deve accadere.
Sì, lo ammetto, io… non ce la faccio neppure a dirlo… ma devo farcela, altrimenti… io… io sono uno di quelli, Dio mio, quale orrenda espressione… io sono un dipendente pubblico… ce l’ho fatta, finalmente l’ho detto.
Non avrei potuto tenerlo nascosto ancora per molto tempo. Vi domanderete perché sto sempre chiuso in casa e vado in giro solo a notte fonda, intabarrato in un mantello nero. E’ che devo nascondere qualcosa che mi denuncerebbe subito agli occhi di tutta la comunità. In via del tutto sperimentale, su iniziativa del ministro freak della Funzione pubblica, ho ricevuto un doppio marchio, due lettere scarlatte come la A di Hester Prynne, solo che le mie sono una F e una P: la prima sta per Fannullone, la seconda per Parassita. E non mi sono state ricamate sui vestiti, no: sarebbe troppo bello. Mi sono state impresse a fuoco sulla pelle, come a Milady de Winter. Sono stato scelto per la sperimentazione del marchio dopo che si è scoperto che, quando mi metto in malattia, in realtà sto benissimo e ne approfitto per esercitare il mio vero lavoro, quello di magnaccia… ho una squadra di prostitute giovanissime, molte addirittura bambine, che metto a disposizione dei miei colleghi statali per le loro pratiche sibaritiche… naturalmente, in orario di servizio.
Ma questo ancora non è nulla. Non sono solo un… insomma, quella spaventosa cosa lì che ho detto prima e che mi fa venire un groppo alla gola al solo pensiero di ripeterla. Sono qualcosa di ancora peggio… un insegnante.
Ma capite? Ma ci pensate? Avete presente… quei tipi loschi, che portano la loro malvagità scritta in faccia… quei beoni che prendono lo stipendio per fare solo 18 ore a settimana, con 2 mesi di vacanza… e, in quelle 18 ore, che cosa non combinano… Rollare cannoni e fumarseli davanti a quelle innocenti creature che dovrebbero educare… molestare sessualmente studentesse minorenni orfane e madri vedove… mostrare il didietro, come gli hooligans inglesi, agli studenti mentre questi stanno girando degli innocui filmati di alto livello morale e culturale da diffondere tramite YouTube… e, Oh Dio, no! addirittura sequestrare cellulari a chi osa tenerli accesi in classe… oppure affiggere ritratti del Papa al muro per usarli come bersaglio nel gioco delle freccette, mentre gli studenti terrorizzati alzano gli occhi al cielo e biascicano preghiere smozzicate, come le donne nei vecchi film di cappa e spada… no, non c’è limite alla nostra satanica perversità.
E non finisce qui… non sono solo un insegnante, ma anche meridionale. E per tre anni, appena entrato in ruolo, non ho fatto altro che… Signore benedetto, quale orrore… che martirizzare giovani padani. Se ci penso… andai addirittura a S.Gimignano, dove c’è il museo degli strumenti di tortura, per imparare a martirizzarli meglio. Quelli che mi portavano tesine su Carlo Cattaneo, poi, li sottoponevo a tormenti quali neppure Torquemada sarebbe mai riuscito a elaborare. Pensate forse alla pera rettale, alla mordacchia, alle tenaglie arroventate? Bazzecole! La mia tecnica era molto più sofisticata e perfida, degna del lestofante che sono. No, non posso ricordare senza sentire io stesso un brivido di terrore… legavo il giovane patriota a una sedia, imbracciavo il mio mandolino e cominciavo a cantargli ‘O sole mio fino a quando non cominciava a perdere fiotti di sangue dal naso e dalle orecchie… alcuni cedevano dopo poco e si prestavano a tutto pur di farmi smettere, ma la maggior parte affrontava impavida i tormenti fino alla morte. D’altronde, sono una razza superiore, mica come noi terroni.
Alla fine, grazie ai numerosi appoggi di cui godo presso la Mafia, la Camorra, la Ndrangheta, la Sacra Corona Unita, la Triade e la Yakuza, sono riuscito a farmi trasferire vicino a casa e mi limito a martirizzare giovani meridionali. Non è lo stesso, ma è meglio che niente.
Non ho più parole… cosa merito? Con quale pena potrei espiare almeno una minima parte di tante nefandezze? Non esiste un supplizio sufficiente… anche la forca, la camera a gas, il plotone di esecuzione, sono roba da uomini, un verme del mio stampo non è degno neppure di questo.
Allora, fate una cosa: defecatemi addosso. Tanto, come direbbe il ministro per le Riforme istituzionali, dopo potrò sempre ripulirmi usando la bandiera tricolore.

il sottile piacere di non essere nessuno

"La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attore che tutto tronfio si dimena durante la sua ora sulla scena, e poi non se ne sa più nulla; è una storia raccontata da un idiota, piena di clamore e di furia, che non significa nulla"
(Macbeth, atto V, scena V, versione di A. Meo)

Queste sono parole su cui ho riflettuto a lungo, da quando le ho lette per la prima volta, diversi anni fa. Credo che, portate alle loro estreme conseguenze, implichino scelte terribili, forse apocalittiche, ma anche che contengano molta più verità di tante sentenze piene di un ottimismo tanto ben confezionato quanto fasullo. E poi, non è necessario portare sempre tutto alle sue estreme conseguenze. Magari il povero attore sa recitare abbastanza bene da farci decidere di seguire la commedia fino alla fine, o è un'attrice talmente attraente che ci sforziamo di seguirla lo stesso, anche se non sa recitare.
Quando mi trovo ad ascoltare un uomo che vanta senza sosta le proprie imprese, la prima cosa che penso è che ho davanti qualcuno con un livello di autostima personale piuttosto basso; man mano che insiste, comincio a pensare che forse deve affrontare nella sua vita quotidiana dei problemi tanto seri quanto imbarazzanti, per esempio una disfunzione erettile; in alcuni casi, il parossismo di chiacchiere autocelebrative arriva a convincermi che ho davanti uno psicopatico e che forse sarebbe il caso di pensare a come contenerlo, con una camicia di forza o con antipsicotici somministrati a dosi da cavallo.
Se lo stesso spettacolo mi appare in televisione (su un canale preso a caso, ad esempio Rete 4) e il soggetto chiacchierone parla a una platea di gente che sventola ritmicamente, senza sosta, delle bandiere e accompagna i passaggi-chiave (che si riconoscono da come cambia la voce) con versi animali tipo ululati e latrati o altre manifestazioni da ultras del tifo organizzato, la mia residua fiducia nel genere umano mi induce a credere che il pubblico sia costituito da figuranti pagati apposta per fare ciò che fanno: infatti, non riesco a immaginare un'altra ragione per cui degli esseri umani debbano scendere così in basso.
Potete dunque immaginare come mi sento ogni volta che seguo un telegiornale. Non a caso, ne seguo solo il minimo indispensabile.

Riconosco che infilare citazioni dappertutto non è proprio il massimo dell'arte di scrivere: ma non posso farne a meno. E' una questione di onestà intellettuale. Ci sono idee e concetti che sono arrivato a concepire da solo, per poi ritrovarli - tra l'altro espressi molto meglio di quanto io non sia mai riuscito a fare - in pagine scritte da persone vissute prima di me. Confesso che mi piacerebbe rivendicarne la priorità, ma non posso commettere simili scorrettezze. Perciò li cito. Ascoltare questa, per esempio:
"Un'autobiografia è attendibile soltanto quando ci rivela qualcosa di disonorevole. Lo scrittore che ci dà un quadro favorevole di se stesso è probabilmente in mala fede, perché qualsiasi vita vista dall'interno non è altro che una serie di sconfitte."
(George Orwell, Benefit of Clergy)
O quest'altra, di una così sublime perfidia:
"Per un uomo che si vanta di scrivere soltanto la verità, trovo più che strano che non una volta nel corso della lunga narrazione qualcuno dica: 'Henry, sei una merda.' Naturalmente è possibile che nessuno l'abbia mai detto, ma ne dubito."
(Gore Vidal, recensendo Sexus di Henry Miller)
Sarà l'abitudine alla mediocrità della vita quotidiana, ma trovo fin troppo naturale la presenza di pensieri come questi nella mia mente. Quando poi mi trovo a confrontarmi - e avviene fin troppo spesso - con gente capace di tirare in causa nobili ideali e massimi sistemi anche se si sta parlando di patatine fritte e ketchup, ogni possibile senso di vergogna svanisce. Sbaglierò, ma sono convinto che sia sempre meglio una sola piccola cosa vera che tante grandi cose false. Forse non è il tempo adatto per coltivare simili pensieri - ce ne sono mai stati? Chissà... - ma non riesco a farne a meno, è più forte di me.

domenica 20 luglio 2008

Ciò che vediamo oggi





In 1984 di George Orwell, quando aumenta il prezzo del pane, le agenzie di stampa dello Stato di Oceania battono la notizia che la popolazione è scesa in piazza a manifestare per ringraziare il governo di aver diminuito il prezzo del pane.

In un racconto di Gianni Rodari, a Pinocchio continua a crescere il naso ogni volta che dice bugie, ma il burattino ha reso questo fenomeno un business: si taglia il naso e, con il legno ricavato, costruisce mobili in massello che vende a caro prezzo.

Fantasia... che a volte è destinata a essere superata dalla realtà. Ieri, da tutti i telegiornali, specie quelli delle sue televisioni, il Presidente del Consiglio che non ho mai votato (e ne sono fiero) ha annunciato e ripetuto fino alla nausea che l'emergenza rifiuti in Campania è risolta, aggiungendo anche una serie di commenti della serie "chi si loda s'imbroda" sul fatto che tutto è avvenuto a tempo di record e che tutti gli altri avevano fallito dove solo lui è riuscito.

Oggi, 20 luglio 2008, la situazione della mia città, Santa Maria Capua Vetere (uno dei comuni più borghesi della provincia di Caserta, sede di Tribunale e di Università) si presentava nel modo che le immagini presenti, scattate tra le 9,30 e le 10,00. possono illustrare meglio di tutte le parole. N. B.: sono state tutte scattate in zone residenziali, in una si osserva benissimo sullo sfondo l'Anfiteatro Campano, ossia il reperto archeologico più importante della città, noto in tutto il mondo.
Che dire? Come stanno davvero le cose? Butto lì qualche ipotesi: 1) Santa Maria Capua Vetere non fa più parte della Campania, è stata annessa dal Burundi; 2) nella fotocamera del mio cellulare si formano delle singolari illusioni ottiche; 3) senza rendermene conto, stamattina sono entrato in un corridoio spazio-tempo che mi ha riportato indietro di alcuni mesi; 4) durante la notte, gruppi organizzati di comunisti sono andati in giro per la città disseminando tonnellate di spazzatura dappertutto per screditare il grande successo del Governo; 5) qualcuno sta raccontando delle palle e, quel che è peggio, i gonzi ci credono.
Scegliete voi la risposta che preferite e, se ve ne importa qualcosa, fatemela conoscere.