lunedì 25 agosto 2008

Fannulloni e Parassiti. La scienza della disinformazione

Questo blog è talmente poco frequentato che, se lo chiudessi, nessuno ne sentirebbe la mancanza. Non è proprio il massimo della mia ambizione ma è la realtà. Tuttavia, pur nel suo modo insignificante di esistere, serve a portare avanti qualcosa di valido. Esprimo qualche idea, senza uniformarmi (almeno, non volontariamente o perché indotto a farlo dalla prospettiva di ricavarne un vantaggio materiale) alle tendenze dominanti. Offro, nel modo di lucido che mi riesce di mettere insieme, la dimostrazione il più possibile razionale e rigorosa del perché interpreto certi fatti in un certo modo. Sarei aperto alle critiche, ma finora non ne ho ricevute. Chi potrebbe criticarmi, evidentemente, o passa oltre o ignora la mia esistenza. Pazienza.
Un’altra caratteristica di questo blog è la determinazione a mantenere un profilo basso. Anche quando tratto argomenti di una certa serietà, non voglio scavare una distanza eccessiva tra me e chi mi legge (anche perché non sarei in grado di reggere un gioco simile). Non voglio propormi come un tuttologo: sono solo una persona comune, con le esigenze delle persone comuni, che ha perso un po’ più di tempo della media a farsi un minimo di cultura e a riflettere sul perché succede ciò che succede. Le due attività sono, in larga misura, imprescindibili l’una dall’altra: leggere molti libri senza provare a convalidare ciò che si è appreso attraverso l’esperienza reale, può diventare una fuga dalla realtà, una forma innocua ma disarmante di nevrosi; porsi delle domande e cercare delle risposte è sempre bello e utile, ma occorre prima aver messo insieme un bagaglio di nozioni, concetti e metodi con cui operare, altrimenti si finisce a passare tutto il tempo immersi in vuote fantasticherie, e anche questo è un comportamento nevrotico. Molte persone hanno delle lucidissime intuizioni sulla realtà che li circonda, ma non sanno svilupparle in alcun modo e, partendo da queste, finiscono per coltivare idee fatte di pura paranoia. Questo è davvero triste, anche per lo spreco di intelligenza che ne consegue. E’ proprio a questo tipo di persone che il mio blog, idealmente, si rivolge.


Torno sulla faccenda degli statali fannulloni e dei provvedimenti presi (si fa per dire) ad hoc contro di essi dal presente Governo, per proporre un argomento che, finora, non è stato sollevato da nessuno. Recentemente, il ministro Brunetta ha dichiarato in un’intervista che non ha ancora finito e che andrà comunque avanti perché 60 milioni di italiani sono dalla sua parte. A tale dichiarazione, si potrebbe rispondere con tutto un repertorio di battute. Ne riporto solo alcune: 1) una persona intellettualmente onesta non avrebbe bisogno di cercarsi una giustificazione così populistica, basterebbe dire “vado comunque avanti perché sto facendo una cosa giusta”: parecchi milioni di tedeschi erano con Hitler quando perseguitava gli ebrei, ma non mi pare che questo basti a farne un esempio da seguire; 2) i residenti in Italia sono solo 59 milioni, e di questi una certa quantità, mi pare 3 milioni, sono stranieri: gli italiani dunque non sono più di 56 milioni. Il consenso dei 4 milioni che mancano al conto, Brunetta, come se lo è procurato? Con le sedute spiritiche? 3) Io e tanti altri non siamo assolutamente d’accordo con lui, così come non vogliamo assolutamente nulla di ciò che, secondo quanto i vari Capezzone e Cicchetto ci propinano quotidianamente dai tg, gli italiani vogliono. Forse non siamo più considerati italiani? Ditemelo per tempo, se sono diventato apolide, così almeno mi procuro un passaporto Nansen.
Però, la questione è un’altra. Indubbiamente, l’operazione di Brunetta riscuote un ampio consenso, che in parte è giustificato dalla condotta irresponsabile di alcuni dipendenti pubblici, in parte è dovuto all’effettiva inefficienza delle amministrazioni (ma, per rimediare a quella, occorrerebbe sanzionare i dirigenti e i politici, non i dipendenti) e molto, moltissimo, è stato costruito attraverso un’opera di disinformazione condotta con criteri sistematici e scientifici, degna di uno stato totalitario (quale siamo e saremo finché si permetterà la candidatura in politica di gente che possiede il monopolio dell’informazione). La gente è stata convinta che: 1) in Italia vige un livello di tassazione spaventoso; 2) per colpa di questo regime fiscale le famiglie non arrivano a fine mese; 3) tutto questo enorme sacrificio serve solo a mantenere un esercito di parassiti; 4) facendo sparire questo esercito, la crisi economica finirebbe e l’economia prospererebbe.
Ora chiediamoci: quanto c’è di vero, in tutto questo? La risposta è: molto poco.
Parliamo del livello di tassazione: Confindustria e le altre associazioni di professionisti e autonomi, ci ripetono che noi versiamo circa il 42% dei nostri guadagni allo Stato; l’attuale presidente del Consiglio, durante una campagna elettorale, ha dichiarato che, ogni anno, noi lavoriamo fino al 28 luglio per lo Stato e solo il poco tempo che resta per noi: significherebbe che sborsiamo circa il 60% dei nostri guadagni per pagare le imposte. Sono cifre da capogiro, roba da giustificare assalti alla Bastiglia e iniziative non meno drastiche. Peccato che la realtà sia diversa. La maggior parte degli italiani (mi riferisco ai lavoratori dipendenti) dichiara un reddito annuo lordo inferiore a 20.000 euro: su queste cifre, il livello medio della tassazione (notoriamente proporzionale e progressiva), si aggira sul 26% per quanto riguarda l’Irpef e, sul totale, dubito che possa superare il 33-35%. A qualcuno potranno sembrare percentuali alte, ma siamo molto lontani dalle cifre di cui parla Confindustria (le altre, non sono neppure da prendere sul serio). La maggior parte degli autonomi dichiara ancora meno, quindi paga ancora meno. Il livello di imposizione fiscale di cui si straparla, dunque, è un livello teorico, almeno per la maggior parte di noi. Basta studiare un po’ di Scienza delle Finanze e farsi qualche semplice conto per comprendere che, se a uno tocca di pagare il 42% dei suoi guadagni in tasse, evidentemente i suoi sono davvero dei bei guadagni, e certo il problema di arrivare o meno a fine mese non lo riguarda; l’idea di un altro che paghi addirittura il 60%, personalmente mi fa pensare a guadagni talmente elevati da permettersi una vita di lusso, altro che i problemi della gente comune. A chi ha anche la spudoratezza di lagnarsi, trovandosi in queste condizioni, sarebbe lecito rispondere: ma paga e sta’ zitto, guarda come stanno gli altri e vergognati. Chissà perché, oggi nessuno si sogna di farlo.
Parliamo adesso delle famiglie che non arrivano a fine mese. Ce ne sono, magari un po’ meno di quelle che si lamentano di questa situazione, ma certo ce ne sono. Molte sono al limite: arrivano a fine mese senza troppe difficoltà, ma basterebbe una semplice variazione in negativo (separazione tra coniugi o malattia grave di uno dei due, per esempio) per farle precipitare nel baratro. Questo è un problema molto più serio di quanto comunemente non si creda e lo smantellamento dello Stato Sociale non farebbe altro che aggravarlo, ma la questione oggi è demodé e ci si guarda bene dal sollevarla. Ma, chiediamoci, cos’è che riduce le famiglie in queste condizioni? Le tasse? Vogliamo far ridere? Lo sappiamo benissimo, di chi è la colpa: siamo strangolati dal carovita, dai prezzi alti che (specie durante i precedenti governi di centrodestra, che risolvevano il problema truccando disinvoltamente i dati dell’Istat) sono cresciuti molto più di salari e stipendi. Dunque, se abbiamo difficoltà ad arrivare a fine mese, prendercela con gli statali è un po’ fuori posto, soprattutto considerando che l’aumento dei prezzi non si ha mai per caso ma per precise responsabilità di precisi soggetti: verso i quali, chissà perché, nessuno lancia crociate come quella di Brunetta.
L’equazione commercianti = ladri esprime con precisione il pensiero di molti lavoratori dipendenti ma, quanto a realtà, vale quanto statali = fannulloni. In altri termini, ce ne sono ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. E anche tra quelli che non sono del tutto a posto, è necessario fare qualche distinzione: alcuni statali fannulloni si dedicano con più impegno a un altro lavoro fuori dell’amministrazione perché altrimenti non riuscirebbero a tirare avanti con il misero stipendio che prendono; alcuni commercianti (specie tra quelli piccoli) fanno la cresta su ciò che devono al fisco e cercano di barcamenarsi oltre il limite del lecito nei rapporti con clienti e fornitori perché, se non facessero così, dovrebbero chiudere. Anche se pochi ne parlano (in genere, si viene a sapere solo conoscendo i soggetti interessati di persona), esistono perfino statali che, pur di servire solo l’amministrazione, fanno letteralmente la fame e commercianti (sempre piccoli) che, pur di rispettare la legge, hanno chiuso e magari si ritrovano anche pieni di debiti. Colgo l’occasione per dichiarare tutta la mia ammirazione e offrire tutta la mia solidarietà a questi eroi della nostra moderna civiltà, anche se quasi tutti li considereranno solo dei fessi.
Poi, però, esistono i delinquenti senza scrupoli: senza il minimo scrupolo, anzi, visto che sono delinquenti legalizzati. Molti commercianti (come tanti altri autonomi) oltre a dichiarare guadagni bassissimi o inesistenti per frodare il fisco, non hanno alcuno scrupolo a fregare i clienti in ogni modo immaginabile (i prezzi alle stelle non sono l’unico). Sono tipici soggetti da galera ma purtroppo ci finiscono troppo raramente. Il fatto che siano tutti elettori di centrodestra dovrebbe dirla lunga sugli obiettivi politici del presente Governo.
C’è poi un’altra categoria, di cui si parla poco e che, invece, dovrebbe essere oggetto di parecchia disapprovazione da parte dei cittadini: gli intermediari, i mediatori. Nell’epoca dell’informatica e di Internet, sono figure anacronistiche, destinate a diventare del tutto inutili se non dannose per i costi che comportano. Dovrebbero servire a far incontrare la domanda con l’offerta all’altezza del giusto prezzo: ma, in realtà, poiché guadagnano a percentuale, il loro obiettivo è sempre di far salire il prezzo il più possibile. All’aumento che provocano in questo modo, poi, bisogna aggiungere il costo della loro percentuale, tutt’altro che trascurabile: niente di strano se poi qualunque prezzo sale al di là di ogni livello tollerabile. Quando poi ci sono più passaggi dal produttore al consumatore, l’effetto aumenta in modo esponenziale: lo stiamo vedendo con i prezzi di frutta e verdura, con i produttori che vendono a quasi nulla e i consumatori che pagano a peso d’oro. A cosa servano, oggi, i mediatori, non si sa. Una minima conoscenza del codice civile e dell’informatica, oltre alla santa abitudine di tenere gli occhi aperti (come consigliano da sempre le associazioni di consumatori) dovrebbero essere più che sufficienti per assicurare il successo di una buona transazione. Alcuni (riconosciamolo) sono davvero persone competenti nel loro campo e avere a che fare con loro comporta notevoli vantaggi per i clienti: ricordo, ad esempio, di aver avuto a che fare con un agente immobiliare specializzato in piccoli immobili di quartieri popolari ma dignitosi, al quale bastava lasciare la descrizione delle proprie esigenze e il prezzo massimo che si era disposti a pagare (tutto questo dopo un po’ di amichevole discussione, perché a volte i clienti confondono i propri sogni con la realtà) per vedersi proporre, passato un tempo ragionevole, una serie di immobili più o meno rispondenti ai criteri determinati. Non era esoso per i compensi, era perfetto per chi doveva organizzare una lunga trasferta o per chi era soffocato dai preparativi di un imminente trasloco, in più era una persona cortesissima, correttissima e rispettosa della legge: purtroppo, e il fatto non mi sembra casuale, era sempre sul punto di chiudere e non so neppure se sia ancora in attività. Se fossero tutti così, capirei la necessità di mantenerli. Ma quanti sono davvero così bravi e onesti? A giudicare da come ce la caviamo oggi, direi una sparuta minoranza, assolutamente non significativa. Insomma, senza offesa per nessuno, se le famiglie hanno problemi ad arrivare a fine mese, la sparizione dei mediatori ne risolverebbe una buona parte. Detto così, suona parecchio truculento: ma non è peggio di quanto quotidianamente si sente dire degli statali.
A quando, allora, l’avvento di un ministro che finalmente lancerà una crociata contro i professionisti inutili che servono solo a far salire i prezzi? Di un Brunetta che si preoccupi di fare qualcosa davvero nell’interesse dei cittadini e non solo di gettare fumo negli occhi dei gonzi?

lunedì 18 agosto 2008

La realtà, il sapere e le Marie Antoniette

John Kenneth Galbraith sosteneva che quasi tutti gli economisti tendono ad avere poche idee nel corso della loro vita, a volte addirittura una sola, e che restano abbarbicati a queste anche quando si trovano davanti all’evidenza del contrario. Di questi tempi, possiamo considerare addirittura ottimistica una valutazione simile: magari si presentasse sulla scena del mondo accademico un economista in grado di concepire qualche nuova idea, e pazienza se saranno poche! O i veri innovatori sono tenuti deliberatamente lontani dagli organi di informazione o il panorama attuale delle scienze economico-politiche è desolante: non ci si smuove dalle stesse solite cose, ormai trite e ritrite, e quasi sempre non si fa fatica a identificare, dietro l’insistenza con cui un cattedratico continua a produrre una dietro l’altra quelle che spaccia come prove inconfutabili della validità della propria posizione, quali sono gli interessi che lo muovono (in altri termini, chi è che lo paga profumatamente per sostenere quel principio e non un altro).
Un vero peccato, a questo punto, sta nel fatto che raramente gli scienziati (intesi come quelli che si dedicano allo studio della natura e al miglioramento della tecnica) si interessano abbastanza di economia e politica da diventarne veri esperti; e, anche quando sembra che lo diventino (ad esempio, per ricoprire importanti cariche istituzionali), spesso si lasciano pesantemente condizionare dalle loro convinzioni politiche, con la conseguenza che si ritrovano fuorviati quando si trovano a dover valutare situazioni che, in uno stato di normale lucidità, guarderebbero da un punto di vista diverso. Piaccia o non piaccia ai vari nostalgici del periodo delle tenebre (che sono, purtroppo, innumerevoli, specie in Italia), il metodo scientifico e gli altri strumenti di ragionamento che abbiamo messo a punto a partire dall’Illuminismo, forniscono a chi sa impiegarli un sano criterio di scetticismo, che permette di muovere obiezioni sensate a qualsiasi teoria: obiezioni capaci di migliorare le teorie valide evidenziandone costruttivamente i punti deboli e di far crollare quelle inattendibili, smascherando tutto ciò che è falsato o interpretato forzatamente in quelle che dovrebbero essere le prove.
Forse, se in Italia si incoraggiasse sin dai primi anni di scuola la lettura dei semplici volumi divulgativi redatti dagli esponenti del Cicap (il gruppo di studiosi e appassionati che indagano scientificamente sull’attendibilità dei fenomeni spacciati per “paranormali”, comprendente, tra gli altri, Piero Angela, Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia e un bel po’ di altre menti eccelse), nelle prossime generazioni potrebbe cominciare a formarsi un po’ di quello spirito critico necessario a dare un senso a una vera democrazia (perché dare qualsiasi libertà, a partire da quella di voto, a un ignorante superstizioso equivale a fare il gioco dei più disonesti manipolatori: questo non significa che l’ignorante in questione debba essere limitato nei suoi diritti umani, ma che va fornito degli strumenti culturali necessari a uscire dal suo stato di handicap. E’ inutile sottolineare che un simile compito può essere svolto solo dalla scuola pubblica, per conto dello Stato e nell’interesse generale). Ma, al momento, tutti quelli che basano la loro fortuna sul contrario, possono stare tranquilli. Non sono certo questi i tempi adatti a una trasformazione simile.
(Per inciso, a volte trovo che quelli del Cicap siano un po’ troppo drastici su alcuni argomenti; in altri termini penso che, sia pure in perfetta buona fede, mostrino i limiti della cultura in cui si sono formati: che è quanto di meglio l’Uomo abbia mai prodotto finora, ma è ancora molto migliorabile. Però, in ogni caso, riguardo al metodo, non li batte nessuno: ed è quello il punto più importante.)
La sto prendendo un po’ alla larga, lo ammetto: però sto parlando di una cosa seria, di un problema reale che si ripresenta quotidianamente. Da sedi istituzionali e ufficiali, cioè investite di una “attendibilità” che dovrebbe essere fuori discussione, arrivano troppo spesso opinioni che non soltanto sono discutibilissime, ma lo sono anche in modo così evidente che perfino un modesto professore di scuola media superiore come il sottoscritto, può farle a pezzi con poca fatica utilizzando pochi semplici ragionamenti logici. Tutto ciò è preoccupante: è la prova (stavolta davvero difficile da confutare) che la nostra civiltà sta affrontando un periodo di pesante decadenza, forse irreversibile.
Può darsi che, in fin dei conti, questo problema sia connaturato alla natura stessa delle istituzioni di cui stiamo parlando: per accedere al ruolo di docente universitario, soprattutto in Italia, occorre una trafila tanto lunga e incerta che si può stare certi che, alla fine, arriveranno a compierla solo i raccomandati di ferro o quelli che possono permettersi di vivere di rendita fino a un’età molto avanzata. Ora, per quanto possano essere dotati sul piano cognitivo, questi soggetti hanno una caratteristica che ne inficia in modo irreparabile l’attendibilità: appartengono tutti alla stessa classe sociale (quella di fascia più alta: le rarissime eccezioni sono state cooptate, quindi non contano) e non hanno mai avuto seriamente a che fare con soggetti di classi sociali diverse: chi non appartiene alla loro casta, in altri termini, vale quanto un numero in una statistica, non di più.
Questi ricercatori, quando si pongono davanti a un fenomeno di cui non hanno esperienza diretta, si limitano a giudicarlo come se lo conoscessero alla perfezione, regolandosi con lo stesso metro che applicherebbero alle loro faccende quotidiane. Di fronte ai tumulti della folla parigina, prima della presa della Pastiglia, concluderebbero, come Maria Antonietta: “Non hanno pane? Mangino brioches”. Senza che il paragone suoni offensivo per la sfortunata regina (che probabilmente, se avesse potuto scegliere, non avrebbe voluto essere così ignorante e superficiale), li potremmo definire proprio così: le Marie Antoniette.

Faccio l’esempio di una opinione del genere: la primavera scorsa lessi su “Il Sole 24 ore” un articolo di Andrea Ichino, economista dell’Università di Bologna, dal titolo piuttosto roboante: “Colpire l’assenteista tutela i più deboli”. Come concetto, non sembra campato per aria: riferendosi all’assenteismo nelle amministrazioni pubbliche e nei servizi da queste offerti, è nell’esperienza di ognuno di noi, per esempio, la lunga lista d’attesa per una prestazione medica: che a volte ci costringe, volenti o nolenti, a pagare quello che potremmo avere gratis per non perdere troppo tempo. Tenuto conto che parecchi non possono permettersi di pagare e sono quindi costretti ad aspettare (con tutti i problemi e i rischi che ne conseguono), se dietro il fenomeno delle lunghe liste d’attesa ci fosse un problema di assenteismo, ci sarebbe di che scandalizzarsi e indignarsi. Ma Ichino non si occupava di questo.
L’articolo faceva riferimento, invece, a una ricerca compiuta in Usa (North Carolina, per la precisione), dalla quale risulterebbe che, nelle scuole professionali (quelle cioè frequentate dagli alunni più scarsi), il tasso di assenza per malattia degli insegnanti è significativamente più alto che nelle altre scuole (quelle frequentate da alunni più capaci). Di conseguenza, concludeva, la qualità dell’istruzione offerta a dei soggetti già in posizione di svantaggio si abbassa ulteriormente. Ichino ammetteva di non conoscere la situazione in Italia, ma di presumerla molto simile. Il rimedio proposto? Penalizzare pesantemente le assenze per malattia, in modo da costringere gli insegnanti a fare lezione anche “con il raffreddore o il braccio al collo”.
Sarà che, come insegnante (dalla salute cagionevole, per di più!), sono molto sensibile a certe cose, ma, a me, questo (Ichino) mi pare uno che ha annusato l’aria che tira e si è immediatamente convertito alla moda del momento, ossia “dagli addosso a questi bastardi che stanno dalla parte di quelli che hanno perso” (anche se l’articolo è uscito prima delle elezioni politiche, il cui risultato era peraltro scontato). Può farlo, ne ha tutto il diritto. Ma paludare il proprio furbo opportunismo con un’apparente attendibilità scientifica è sempre e comunque un’azione ignobile.
Personalmente sono certo del fatto che, anche in Italia, le assenze per malattia degli insegnanti dei professionali sono superiori a quelle dei colleghi dei licei. Non ci vuole molto a capirlo, basta avere insegnato nei professionali e io l’ho fatto (Ichino, mi pare di capire, no). Nonostante quanto sostengono i nostalgici per i quali la riforma Gentile ha prodotto la migliore scuola possibile, il sistema dell’istruzione, dopo la scuola media unica, funziona così: i bravi vanno ai licei, i così così ai tecnici, gli scarsi (e gli scarti delle altre scuole) ai professionali. Gli alunni dei professionali (non tutti, per carità, ce ne sono anche di intelligenti e motivati, ma sono una minoranza che stimo inferiore al 10%) non sono solo scarsi come scolari, spesso valgono poco anche come persone: hanno famiglie inesistenti o assenti o irresponsabili alle spalle, non hanno valori positivi di nessun genere (è un ambiente in cui sono reclutati moltissimi tifosi violenti, tanto per fare un esempio) e, quanto a educazione e senso civico, si può dire che stiano al di sotto (parecchio al di sotto) di molti animali. Sia detto senza offesa (sono vittime di una certa situazione, che fa molto comodo a chi evita accuratamente di mescolarsi con loro, prima che colpevoli di ciò che fanno: anche se sapere questo non aiuta a sopportarli meglio), sono tipi che una persona normale frequenterebbe solo se fosse pagata per farlo. Viverci insieme anche per sole 18 ore a settimana, è uno stress tale che sarebbe impossibile non compromettere la propria salute. Sprecando tutta la più buona volontà, quando ero al Professionale (e sono stato in un buon Professionale, i colleghi degli altri mi invidiavano) ho perso parecchie ore della mia vita cercando unicamente di evitare disastri (del genere di danni, feriti e morti accidentali), in mezzo a gente la cui compagnia avrebbe ridotto in frantumi anche un Ego di dimensioni smisurate. Figuriamoci come avrei potuto andarci con il raffreddore o il braccio al collo. Già in condizioni di massima efficienza fisica rischiavo quotidianamente di essere sopraffatto.
Una cosa che Ichino non sa (o finge di non sapere) è che, quando succede qualcosa di grave nella classe in cui stai facendo lezione, tu insegnante rischi seriamente di passare un grosso guaio. E, se per caso provi ad accampare la scusa che la situazione ti è sfuggita di mano perché non stavi bene in quel momento, puoi stare certo che non ti daranno una medaglia e neppure ti riconosceranno una minima attenuante. Al massimo, ti diranno che sei stato un babbione a non darti malato. Non voglio farne una colpa a Ichino, ma al mondo le cose funzionano così.
Inoltre, qualunque medico (forse perfino quelli laureati con il Cepu) può spiegare quanto sia opportuno che le persone affette da malattie infettive se ne stiano a casa, il più possibile isolate. Questo è tanto più vero a scuola, in cui si sta in tanti (molti di più da quando sono venute la Moratti e la Gelmini) in spazi ristretti e, d’inverno, chiusi. Se vado a fare lezione con il raffreddore, come minimo infetto 15 ragazzi: non so quanti genitori mi sarebbero grati per questo. Ci si lamenta tanto della spesa sanitaria, manco fossimo tutti ipocondriaci al massimo livello, ma limitarsi a suggerire delle semplici strategie igieniche nell’interesse di tutti, è una cosa tanto difficile? Evidentemente sì, se Ichino, dall’alto della sua posizione, afferma addirittura il contrario.
Insomma, la mia sensazione è che Ichino (in buona fede? O perché così conviene ai suoi committenti?) descriva il fenomeno indicando solo gli aspetti che gli fanno comodo. Non cerca, evidentemente, una soluzione: si accontenta di scaricare tutta la responsabilità un capro espiatorio e ne trova uno che sembra davvero perfetto.
Il metodo seguito da Ichino è questo: la teoria è già pronta, bisogna cercare solo le prove. Si analizzano i fenomeni, si prendono i dati che confermano la teoria e si sottolineano; quelli che, invece, non la confermano o la smentiscono addirittura, si ignorano. Lo definirei, se non esiste già un altro termine specifico, “metodo ascientifico”. E’ lo stesso metodo (se qualcuno è curioso di approfondire la questione, ci sono diverse dimostrazioni di come funzioni nei gradevolissimi libri di Massimo Polidoro, un membro del Cicap) con cui si sono sempre costruite leggende e superstizioni dure a morire, partendo da fatti di dubbia interpretazione.
Ma Ichino è un ricercatore e docente universitario, quindi la sua opinione su argomenti di cui non ha la minima cognizione pesa molto più della mia e degli altri che sulla questione avrebbero tanto e tanto da dire.

Ne cito un altro, e questo è un pesce ancora più grosso: Alberto Alesina. Stando alle note biografiche presenti su Wikipedia (mi auguro che non se le sia scritte da solo), sarebbe così stimato in ambito internazionale che molti arrivano a pronosticargli un Nobel in futuro (Ma va’… in fondo, lo hanno dato anche a Milton Friedman: se mi permettete il termine, ormai è proprio sputtanato). Una decina di anni fa lessi un suo articolo (era sul “Corriere” o su “La Stampa”, non ricordo più). Purtroppo non trovo più dove l’ho conservato, ma ricordo abbastanza bene il titolo (qualcosa come “Il Nord continua a mantenere il Sud”) e il contenuto. In pratica, Alesina sosteneva che, poiché il costo della vita nel Sud Italia è più basso che nel Nord, con gli stipendi dello Stato a Sud si vive come nababbi (venite a casa mia, se volete vedere quanto ha ragione) e dunque i giovani meridionali preferiscono affrontare studi giuridici o umanistici con la prospettiva di raggiungere, prima o poi, l’agognato “posto” pubblico piuttosto che osare indirizzi di formazione diversi per prepararsi a entrare in affari come imprenditori. A prima vista, sembra una tesi scontata, con tante di quelle prove che ci si può permettere addirittura di scartarne qualcuna.
E qui sta il problema, perché la realtà non è poi così ovvia, se solo si prova a uscire dal salotto di casa Alesina e si guardano le cose come stanno. Ci sono almeno tre o quattro elementi che la influenzano pesantemente e che Alesina non considera proprio: chissà perché, sono tutti elementi in contrasto con la sua tesi.
Innanzitutto, il reddito familiare medio al Sud è più basso, le famiglie monoreddito al Sud sono di più, le famiglie sono mediamente più numerose al Sud che al Nord: conseguenza ovvia, far studiare i figli è mediamente più difficile al Sud che al Nord. Poi: gli studi universitari non hanno tutti lo stesso costo: quelli giuridici e umanistici costano di meno di quelli economici e tecnologici. Dunque, non ci si deve meravigliare che siano prediletti da quelli che hanno meno risorse da spendere. Poi, per avviarsi in campo imprenditoriale, si deve affrontare un costo iniziale, in termini monetari, enormemente superiore a quello che tocca a chi sceglie un lavoro dipendente: dunque, al Nord c’è molta più gente che può permetterselo rispetto al Sud. La possibilità di accedere o meno a forme di finanziamento, rappresenta il colpo di grazia: in nessun posto come in Italia è valido quel detto per cui “le banche prestano soldi solo a chi dimostra di non averne bisogno”, e questi sono molto più numerosi al Nord.
Insomma, il teorema di Alesina ne esce parecchio ridimensionato, eppure sembrava partire da una constatazione alla portata di tutti. L’errore, in questo caso, è spingere il ragionamento alle estreme conseguenze senza che sia necessario. Se tutte le matricole delle Università italiane potessero permettersi la Bocconi, avrebbe ragione Alesina; poiché non è così, Alesina ha torto. Uno come lui, se non c’è pane, mangia brioches: ed è convinto che questo valga per tutti. O, semplicemente, si mostra tale perché così conviene a quelli che lo foraggiano.
Penso sia superfluo far notare che Ichino e Alesina, oltre a essere studiosi piuttosto conosciuti, sono anche molto considerati negli ambienti di centro-sinistra. In altri termini, non rappresentano certo l’ala estrema di un liberalismo selvaggio ma una posizione che, in generale, si tende a considerare addirittura moderata. Su questo, magari, dovrebbe riflettere anche la sinistra dura e pura, quella che si considera alternativa a certe posizioni. Forse siamo in ritardo, ma un deciso cambiamento di rotta e una precisa assunzione di responsabilità non possono aspettare. Il mondo cambia rapidamente, cambia in peggio e ci lascia indietro. In un momento come questo, esibirsi rumorosamente in piazza, sventolare vessilli nostalgici, scandire slogan truculenti, sostenere a oltranza le ragioni di perdigiorno dal cervello fuso a forza di fumare canne, trascinare polemiche tanto annose quanto puerili su questioni tutt’altro che significative, serve solo a coprire (malamente) un vuoto pneumatico di pensiero e fa solo il gioco dell’altra parte. Occorrono idee, idee nuove e proposte per metterle in atto realisticamente, prima di precipitare in un nuovo oscurantismo.

sabato 16 agosto 2008

Successo e fallimento

Ignoro come vadano le cose negli altri paesi, ma ormai sono arrivato a farmi una ragione della realtà per cui, in Italia, nulla viene ritenuto più importante dell’apparenza, indipendentemente o meno dal fatto che dietro vi si trovi o meno della sostanza. Nonostante non siano affatto degli accaniti lettori di romanzi (e nemmeno di altri generi letterari, se è per questo), gli italiani tendono sempre a classificare i personaggi pubblici come quelli caratteristici di una certa narrativa popolare: per intenderci, quella che mostra i francesi come donnaioli pasticcioni, gli inglesi come snob eccentrici, i napoletani come insaziabili divoratori di pizza e instancabili strimpellatori di mandolino.
Ad esempio, in Italia si può benissimo passare per “persona seria”, “gran signore” o addirittura “galantuomo”, semplicemente avendo cura di abbinare convenientemente la giacca con la cravatta e sforzandosi di mantenere costantemente un’espressione accigliata, vagamente truce senza essere aggressiva. Questo, indipendentemente dalla propria condotta e dai propri discorsi: a questi dettagli, evidentemente trascurabili, non farà caso quasi nessuno. Quali esempi paradigmatici di personaggi simili, ne avremmo a bizzeffe: ma il campione insuperato della categoria resta, a mio giudizio, il leggendario presidente della commissione parlamentare sul “caso” Telekom Serbia, il senatore Enzo Trantino. A chi, in quel tempo, ebbe la pazienza di seguire tutti i servizi sui telegiornali e i vari approfondimenti sull’argomento, non poté sfuggire l’esilarante contrasto tra le surreali assurdità che il supertestimone Igor Marini inventava con più fantasia di un artista beatnik sotto l’effetto di massicce dosi di Lsd e l’atteggiamento di drammatica gravità con cui il Sen. Trantino si presentava a illustrarle davanti alle telecamere, avendo tutta l’aria di prenderle davvero sul serio. Sembrava di veder recitare un redivivo Buster Keaton, con la differenza che la maschera clownesca di Keaton era il risultato di anni e anni di paziente applicazione, mentre nel caso di Trantino si trattava dell’espressione di un talento naturale e spontaneo.
(Come sia finita la faccenda, mi auguro che lo ricordino tutti).

Purtroppo però la faccenda dell’apparenza più importante della sostanza non si può esaurire ricordando gli attori da Oscar finiti in Parlamento o addirittura a ricoprire importanti cariche istituzionali. La vita di quasi tutti noi (quelli che, per svariati motivi, non possono permettersi di comprare le vite degli altri) è condizionata a tutti i livelli dalla pervicace presenza, in ogni contesto, di soggetti che hanno accuratamente sovrapposto una maschera alla loro effettiva personalità e che, ogni volta che possono permetterselo, impongono al prossimo di considerare solo l’esistenza di questa maschera, come se la persona dietro non fosse mai esistita prima di mascherarsi. Questa posizione, riconosciamolo, è da psicopatici: ma, trattandosi di psicopatici non immediatamente pericolosi (e, spesso, di psicopatici che hanno una certa influenza sulla società perché largamente dotati di mezzi), in generale si tende a mostrare verso di essi una tolleranza che sfocia spesso nella condiscendenza. Molti italiani, poi (quelli che hanno improntato la loro vita al motto immortale: “Franza o Spagna, purché se magna”), il problema non se lo pongono nemmeno, finché sono liberi di fare i fatti loro, e sono disposti a credere a tutto ciò che in quel momento conviene credere. Di conseguenza, anche quando non vogliamo, siamo vittime di mistificazioni colossali, in cui non ci si limita ad alterare la realtà ma la si prospetta addirittura all’opposto di come è.

Non è questa la sede per ripercorrere tutta la biografia del nostro attuale Presidente del Consiglio: occorrerebbero migliaia di pagine anche solo per riportare qualche citazione da una minima parte degli atti giudiziari che lo riguardano. D’altronde, in questo momento non voglio esprimere alcun giudizio morale su di lui, ma semplicemente smascherare in dettaglio una delle tante bugie che ci propina quotidianamente. Non è nemmeno la più grave, ma è quella cui finora mi sono dedicato con maggiore attenzione.
Parliamo del suo “successo” in politica. Lasciamo perdere, infatti, il “successo” come imprenditore (sempre, appunto, per la storia delle citazioni degli atti giudiziari). In questo momento, chiunque assista a un telegiornale (specie quelli di Mediaset), o legga un quotidiano (specialmente “Il Giornale”, “Libero” e “La Padania”) può avere l’impressione che il governo italiano abbia a capo una figura storica dalla statura titanica, uno che può mettersi a competere con Giulio Cesare o George Washington senza rischiare di sfigurare. Uno che, quando sarà terminato il suo ciclo, costringerà gli storici a dividere il tempo in un ante e in un post, dove la sua presenza costituirà, appunto, la linea di demarcazione. Uno per il quale i nostri tempi saranno ancora ricordati, tra migliaia di anni (se l’uomo esisterà ancora), solo perché vi è vissuto lui. Insomma, se non un Padreterno, qualcosa di molto più simile al Padreterno che all’uomo. Un Messia: non a caso si è autodefinito “L’Unto dal Signore”.
Questo Messia, forse è il caso di ricordarlo, è in politica dal 1993: sono dunque quindici anni. In questo periodo è stato candidato per 5 volte alle elezioni: 3 volte ha vinto, 2 volte è stato sconfitto. Per un Padreterno, è un bilancio un po’ misero: si tratta di una percentuale di insuccesso del 40%. Per usare una delle metafore calcistiche che tanto gli sono care, nessun allenatore investirebbe del ruolo di rigorista uno che sbaglia il 40% dei penalties, fosse anche un fuoriclasse come Kakà o Ronaldo.
Andiamo poi a vedere in quale situazione si sono svolte le elezioni in questione. Il popolo italiano non è stato mai incline all’idealismo, nemmeno ai sacrifici di nessun genere (sono accettati solo quelli inflitti a qualcun altro) e, quanto a senso civico, siamo agli ultimi posti della classifica mondiale, superati anche da paesi in via di sviluppo. A questo popolo, il Messia si è presentato ogni volta nel modo più compiacente: forte della sua esperienza con la pubblicità, ha svolto qualche sondaggio su ciò che la maggioranza desiderava, ha messo insieme un programma vago ma altisonante in cui prometteva tutto a tutti e, approfittando della posizione di monopolio che detiene nell’informazione, lo ha fatto arrivare, con l’intensità di un bombardamento a tappeto, all’attenzione di tutti. E’ ricorso a ogni forma di semplificazione, pur di far rimanere le sue massime nell’orecchio di chi le ascoltava: le “tre I” del suo programma per l’Istruzione riecheggiavano in modo sinistro le “tre G” del programma antisemita di Goebbels, ma pochi ci hanno fatto caso e tanti si sono limitati a impararle come le pecore di “Animal Farm” (“Quattro gambe, buono; due gambe, cattivo”). Gli italiani non sono solo pagnottisti, sono anche opportunisti, pronti a saltare sul carro del vincitore: per allettarli ulteriormente, allora, il Messia ha offerto loro spettacoli di coreografie sfarzose, di platee immense che seguivano con la massima attenzione i suoi interminabili e sconnessi discorsi, sottolineandone i passaggi salienti con ululati collettivi quali non si sentivano dai tempi di Hitler a Norimberga, nel 1936; è un vero peccato che tra i suoi registi televisivi non se ne trovi uno che abbia almeno un millesimo del talento di Leni Riefenstahl: altrimenti, chissà, avremmo potuto avere un altro “Trionfo della volontà”.
Un’altra cosa di cui gli italiani sentono costante bisogno è qualche capro espiatorio cui attribuire tutte le colpe per le cose che vanno male: e il Messia ne fornisce un intero campionario, dagli immigrati ai sindacalisti, dai dipendenti statali agli intellettuali: tutte figure che l’italiano medio, in costante lotta con le regole (da quelle di convivenza civile a quelle grammaticali e sintattiche), già sopporta solo quando non ne può fare a meno.
Insomma, questo Messia è un capo fatto su misura per il suo popolo. La metafora calcistica di prima non è sufficiente: la sua candidatura alle elezioni non è come tirare un rigore in serie A, dove puoi trovarti davanti un Gigi Buffon (o un Pino Tagliatatela, per restare tra intenditori) capace di respingere anche un tiro quasi imparabile. E’, piuttosto, come tirare un rigore avendo messo in porta un vecchietto male in arnese che passava casualmente dalle parti del campo e non aveva mai giocato a pallone prima.
Ciò malgrado, il Messia ha toppato il 40% dei tiri a sua disposizione. Qui, evidentemente, non si sta parlando di Kakà o Ronaldo ma, volendo essere generosi, di Libera o Calloni.
Andiamo poi a vedere contro chi le ha perse, queste elezioni. In ambo i casi, il suo avversario è stato un personaggio di scarsissimo appeal, uno che ha alle spalle una vita operosa ma terribilmente grigia, modestissimo quale comunicatore, con alle spalle una sorta di Armata Brancaleone eterogenea e raffazzonata, pullulante di personaggi da cabaret incapaci di prendersi la minima responsabilità e perennemente impegnati a scannarsi reciprocamente in beghe puerili, e un programma di governo tragicamente impegnativo, mirante alla sopravvivenza attraverso sacrifici spropositati, senza promesse da paese di Bengodi… tutto l’opposto di ciò che gli italiani hanno sempre voluto, detto senza mezzi termini e, anzi, amplificato a dismisura dai mezzi di informazione controllati dal Messia. Nella seconda occasione, va aggiunto, l’Armata Brancaleone si è presentata alle urne con l’handicap di una legge elettorale elaborata e varata in tutta fretta apposta per farla perdere. Eppure ha vinto lo stesso, sia pure di poco. Il Messia naturalmente ha attribuito la sconfitta ai brogli: una teoria interessante, specie se si considera che sarebbe la prima volta nella Storia in cui i brogli sono stati compiuti dall’opposizione e non dal governo uscente, dopo che questo aveva piazzato uomini di sua fiducia in tutti i posti chiave.
Insomma, è come se il rigore con il vecchietto decrepito in porta fosse stato tirato da cinque metri, con il vecchietto legato stretto da catene e catenacci come il grande Houdini, e la palla fosse stata ugualmente calciata fuori. Evidentemente, il presunto fuoriclasse non solo non è Kakà, ma neppure Calloni. Al massimo, è Luis Silvio Danuello, il cameriere brasiliano che aveva fatto giusto due passaggi sulla spiaggia e, nel 1980, dei sedicenti esperti brasiliani segnalarono ai dirigenti della Pistoiese come una grande promessa del football carioca: per chi l’avesse dimenticato, in Italia giocò solo qualche minuto e non toccò praticamente palla, prima di essere rispedito al mittente.
Questo è l’uomo che, al momento, detiene il massimo potere nel nostro Paese: un cialtrone che si fa passare per un Messia. Se, l’imprenditore vale quanto il politico, c’è da meravigliarsi del fatto che non sia ancora finito a vendere fazzolettini di carta ai semafori. Forse, la spiegazione di questo, sta nelle famose carte giudiziarie di cui dicevo prima.
Ma, per ora, lasciamole perdere e poniamoci una domanda alla nostra portata: se questo è il successo, cosa sarà mai il fallimento?

lunedì 11 agosto 2008

Un aggiornamento sulle emergenze. La Signora Rottermaier, Attila e gli altri. Le Scuole pubbliche e quelle private

Sono passate quasi tre settimane dal fatidico annuncio della risoluzione dell’emergenza rifiuti in Campania e, bisogna ammetterlo, almeno non siamo più su tutti i telegiornali. A parte questo, non mi sembra di vedere immense differenze rispetto a prima.
Essendo un automobilista ligio al codice della strada, mi guardo bene dallo scattare foto mentre sto guidando e, in certi posti, non si ha la possibilità di fermarsi se non a rischio della vita (c’è una preoccupante abbondanza di campioni di Formula 1 mancati che sfrecciano da ogni direzione). Dunque, non ho immagini da proporvi per illustrarvi quanto sto per dire, mi limito a darvi un po’ di riferimenti geografici nel caso voleste andare a controllare da soli.
In queste settimane, oltre a un breve periodo di vacanza, ho girato poco, anche per via del caldo intenso, ma ho avuto modo di ammirare come nessuno si sia degnato di rimuovere le tonnellate di spazzatura che occupano, da mesi, diverse piazzole di sosta dell’asse mediano, in particolare: in vicinanza dell’uscita di Trentola-Centro Commerciale Jambo; in vicinanza dell’uscita di S.Antimo-Casandrino; tra Scampia e Piscinola; inoltre ho verificato come la periferia di Orta di Atella (dove la zona nuova finisce in quel che resta della campagna) sia una vera e propria discarica abusiva. Sul perché tanta schifezza sia rimasta in giro nonostante gli annunci trionfalistici, ho una mia teoria: hanno fatto, come si dice da queste parti: “’Ncoppa ‘o liscitiello e sotto ‘o pedocchiello”, ossia hanno pulito solo dove passano turisti e operatori tv, mentre altrove la situazione è rimasta più o meno la stessa (anche la differenziata, quando partirà? Ne stiamo parlando da mesi, ma ancora non si vede niente. E la spazzatura indifferenziata che produciamo a tonnellate, da qualche parte deve pure andare a finire: non oso chiedermi dove).
Il nostro Presidente del Consiglio, qualche tempo fa, raccontò che la mamma si preoccupò di spiegargli che al mercato la spesa si fa controllando tutte le bancarelle e poi acquistando la roba migliore al prezzo migliore (cosa che, personalmente, ho imparato da solo, ben prima che la vergognosa speculazione sul passaggio dalla lira all’euro impezzentisse i percettori di reddito fisso): purtroppo, l’attenta signora dimenticò di spiegargli che una brava massaia, quando fa le pulizie di casa, toglie di mezzo tutto lo sporco e non si limita a spazzarlo sotto il tappeto per non farlo vedere al parroco quando viene a benedire per Pasqua.

Passiamo ad altro: parliamo di scuola. Proviamo a scrivere qualcosa sulla ministra dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini. Innanzitutto, qualcosa di simpatico: è una donnina gradevole, piacente specie per chi preferisce il tipo “signora Rottermaier” (l’istitutrice che angariava la piccola Clara in “Heidi”) e sicuramente si presenta molto meglio delle sue colleghe di governo: la Carfagna, è diventata inguardabile dopo che qualche esperto di look (reclutato tra quelli che non toccherebbero, in senso stretto, una donna nemmeno con un fiore) le ha detto che dimagrendo come un’anoressica e tagliandosi i capelli alla maniera della conversa di Belfort sarebbe diventata la nuova Audrey Hepburn (intanto, quella originale si rivolta nella tomba); la drag queen Brambilla è sempre stata il tipo di donna più adatta a esaltare le inclinazioni degli omosessuali latenti, che nel nostro Paese costituiscono la maggioranza del sesso maschile (in particolare quella che vota a destra: e questo ne spiega l’ossessiva, morbosa omofobia) ma non rappresentano, ci auguriamo, la norma dell’intera umanità. Non me ne voglia Rocco Siffredi, non ce l’ho con lui ma con gli spettatori dei suoi film: avrò tutti i miei limiti, lo riconosco, ma non sono mai riuscito a divertirmi ammirando sequenze incentrate su peni di dimensioni gigantesche e ho qualche dubbio sulla virilità di chi ci riesce.
Qualcuno mi interromperà, a questo punto, per dirmi: ma come, stai parlando di una ministra o di una concorrente di “Veline”? E’ mai possibile che si finisce a parare sempre dalle stesse parti? Massì, lo so benissimo che sto parlando di una ministra, ma è pur sempre una ministra di un governo di destra, votato e rappresentato in larga maggioranza da soggetti per cui le donne servono a qualcosa solo quando sono in posizione orizzontale. Non faccio altro che uniformarmi alla scuola di pensiero cui esse stesse appartengono. Dovrebbero essermi grate, anziché offendersi, del fatto che non le tratto come tratterei come, ad esempio, la Guzzanti o la Littizzetto (per non parlare della Levi Montalcini).
Per dirla tutta, il fatto che la maggioranza attuale abbia messo proprio una donna all’Istruzione (il ministero dal quale io, insegnante, dipendo) mi è sembrato subito un pessimo segno: significa solo che non lo tengono in nessunissimo conto. Rapportato a un contesto familiare equivarrebbe, insomma, a pulire i gabinetti.
Infatti, a dispetto dei soliti proclami e del diligente impegno che la poveretta dimostra in ogni uscita pubblica, è già evidente che Maria Stella sta lì solo per un motivo, lo stesso che a suo tempo ci aveva portato un’altra simpatica signora, la Moratti: salire sul palco e prendere in faccia le uova marce e i pomodori fradici che, a rigore, toccherebbero a Tremonti, il grande demolitore che, con la scusa di far quadrare il bilancio senza disturbare i suoi più fedeli elettori, un po’ alla volta sta riducendo la scuola pubblica a un cumulo di macerie fumanti. Se Attila, ai suoi tempi, si fosse impegnato a distruggere l’Impero Romano d’Occidente un decimo di quanto si sta impegnando Tremonti a distruggere la scuola pubblica, S. Leone Magno avrebbe avuto voglia di predicare e offrire riscatti: non sarebbe servito a nulla e chi sa che piega avrebbe preso la nostra Storia
Il modo in cui questa distruzione sta avvenendo, peraltro, è degno di Attila: ossia, barbarico nella forma e nella sostanza. Se non fosse che ci vanno di mezzo le nostre vite (per ora soprattutto quelle dei colleghi precari, ma non dubito che prima o poi anche noi di ruolo pagheremo il conto), direi che tutto il disegno mostra prima di ogni altra cosa una cialtroneria che non ci si aspetterebbe da gente che ha avuto la fortuna di nascere e crescere in un Paese industrializzato, di compiere un percorso di studi completo in famose Università, di vivere a stretto contatto (se non addirittura dentro) con quella parte di società che decide i destini del mondo. E’ vero che, oggi, chi si trova a occupare i posti di responsabilità in Italia non è stato certo reclutato per le sue capacità, quanto piuttosto per la sua fedeltà canina a un padrone che paga profumatamente e pronta cassa… però, sì, diciamolo, un Paese che permette ai Brunetta e ai Tremonti di occupare addirittura cattedre universitarie, evidentemente, è già in uno stato di decadenza irreversibile. Qualunque idiota può diventare ministro o presidente, purché abbia alle spalle un partito politico abbastanza forte, ma l’accesso al ruolo di docente universitario dovrebbe (almeno in teoria) essere riservato a luminari della conoscenza, magari specializzati in un settore limitato, ma sempre di una levatura intellettuale superiore alla massa. Guardate bene, poi ascoltate bene Tremonti e Brunetta e poi giudicate con i vostri sensi.
Sono in vena di cattiverie: perché negarlo? La sfortuna, però, è che le mie possono solo restare sulla carta, non avere l’effetto di quelle altrui. Ma saranno poi, queste ultime, davvero cattiverie? Dietrich Bonhoeffer affermava di temere più gli stupidi che i cattivi, perché i cattivi, se pensano di ricavarne un tornaconto personale, possono persino compiere buone azioni, mentre gli stupidi sono capaci solo di fare del male (lo stesso concetto è stato spiegato in termini scientifici da Carlo Maria Cipolla). Quando appaiono in Tv i due campioni della nostra nuova politica statale, è quasi rassicurante ammirare l’aspetto da protagonista di film di Tod Browning di uno e quello decisamente eunucoide dell’altro. Due look che, tenendo ben presente l’innata crudeltà dei bambini di ogni tempo e paese, fanno pensare a infanzie più dolorose di quella di Oliver Twist, sia pure per motivi diversi, e a un solido e ben radicato odio per il resto dell’umanità quale elemento preponderante della personalità di entrambi.
(E non venite a menarcelo con le statistiche con cui Brunetta "dimostra" di aver rimesso in riga gli statali. Come se per cinque anni la Moratti non avesse sciorinato quotidianamente cifre e cifre su investimenti massicci a favore dell'istruzione, mentre noi che ci stavamo dentro ci accorgevamo solo di assunzioni bloccate, posti persi, istituti chiusi, fondi ridotti, stipendi immiseriti... forse al mondo esiste qualcuno che crede ancora a Babbo Natale, ma esistono sicuramente molte persone che non hanno mai creduto a Babbo Natale ma credono fermamente nell'astrologia; e poi esistono ancora molte persone che non credono a Babbo Natale, non credono all'astrologia, eppure credono alle promesse elettorali e agli annunci trionfalistici del centrodestra. A questo punto, viva Babbo Natale!)

Ma lasciamo perdere la criminologia spicciola e poniamoci un po’ di domande sulla realtà del presente: perché radere al suolo la scuola pubblica? Quali sono le ragioni di un tale accanimento?
Delle tante notizie che si stanno accavallando in questo periodo circa i tagli decisi da Tremonti & Co. per la scuola pubblica, una mi ha colpito in modo speciale: quella di un dossier presentato da un’associazione di genitori che mandano i figli alle scuole private, dal quale risulterebbe che, finanziando con fondi pubblici le famiglie che usufruiscono delle scuole private, si può ottenere un consistente risparmio di denaro pubblico. In sintesi, se buoni scuola e simili iniziative fossero estesi in modo capillare a tutti coloro che potrebbero goderne, una popolazione scolastica stimata in circa 600.000 unità migrerebbe dalla scuola pubblica alla scuola privata, consentendo così il taglio di un numero altissimo di classi e di cattedre. E’ stato stimato che, a fronte di una certa spesa in buoni scuola e contributi vari, lo Stato risparmierebbe una cifra pari a circa 10 volte tanto di stipendi non pagati ai docenti della scuola pubblica.
(C’è da commuoversi pensando al senso civico di questi cittadini comuni, che si preoccupano tanto del bilancio statale e del debito pubblico. Sono assolutamente certo che è stato questo tipo di considerazione a muoverli, e che gli eventuali vantaggi che ne deriverebbero per loro, a danno di moltissime altre famiglie, non li hanno neppure considerati, neanche per sbaglio.)
Che dire? Durante la campagna elettorale, conversando con i colleghi, espressi un’opinione che ritenevo originale ma che, scoprii, è condivisa da molti docenti – e, probabilmente, pesa notevolmente nel determinare le scelte elettorali della maggior parte di noi. Per una parte politica (quella che ha vinto le elezioni e oggi gode di una maggioranza blindata in ambo i rami del Parlamento), la Scuola Pubblica è qualcosa di molto vicino a un tumore da estirpare senza pietà dalla società contemporanea, sia per ragioni strettamente ideologiche (mantiene molti elettori avversari), sia per ragioni economiche. Queste ultime, a mio giudizio le più importanti, sono di due tipi:
1) la Scuola Pubblica ha un costo che grava su tutta la collettività; come tutti gli altri servizi dello Stato Sociale, si mantiene accessibile a tutti grazie alla fiscalità e, in particolare alle imposte dirette, ossia sul reddito (che, prima dell’invenzione dello Stato Sociale, non esistevano o erano trascurabili rispetto a quelle indirette, ossia sui consumi): pertanto, perché la Scuola pubblica continui a funzionare decorosamente, le imposte dirette non possono scendere al di sotto di un certo livello;
(approfitto dell’occasione per far notare un dettaglio che di solito sfugge al volgo, cioè che le imposte dirette, per natura proporzionali e progressive, sono uno strumento di perequazione economica: più si guadagna, più si paga; invece, quelle indirette aumentano la sperequazione tra ricchi e poveri, dato che i secondi sono costretti a consumare tutto il loro reddito per sopravvivere e i primi no; finché sono esistite solo le imposte indirette, le tasse le hanno pagate solo i poveri: se i ministri di Luigi XVI fossero stati così accorti da inventare l’IRPEF o addirittura la famigerata ICI, non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese, oggi la Francia sarebbe ancora sotto la monarchia capetingia e probabilmente sia il re, sia la consorte Maria Antonietta, sarebbero morti di polmonite all’età di 70 anni, senza inutili spargimenti di sangue)
2) la Scuola Pubblica, essendo finanziata direttamente dalle risorse dello Stato, ha un costo bassissimo per i suoi utenti, dunque è in grado di sbaragliare la concorrenza delle scuole private che non potranno mai costare così poco: dunque, la sua esistenza comporta una molto minore potenzialità di guadagno per chi potrebbe investire proficuamente nel campo dell’Istruzione.
Insomma, a dirla in breve, per chi ha i soldi e può altamente strafregarsene dei servizi dello Stato Sociale, l’esistenza della Scuola Pubblica significa imposte in più da pagare e meno possibilità di guadagnare. In particolare, distruggendo la Scuola Pubblica, il sistema dell’istruzione potrebbe diventare simile a quelli delle banche e delle assicurazioni, con prezzi imposti da oligopoli e cartelli, alti finché si vuole e senza alcuna relazione tra qualità del servizio e costo dello stesso. Insomma, ci sarebbe da guadagnare un pozzo di soldi.
Analoghe iniziative – che comunque ci riguardano tutti, anche se al momento non ci sembrano così vicine a noi – sono state avviate per smantellare anche il sistema della Previdenza Pubblica e quello della Sanità Pubblica: in pratica, tutti gli elementi dello Stato Sociale. Alla fine di questo processo, chi vorrà – o, più facilmente, chi avrà bisogno – dovrà solo pagare, pagare, pagare: oppure, rinunciare.
Dunque, quando Padoa-Schioppa affermava che “le tasse sono una cosa bellissima”, non aveva tutti i torti. E’ meglio pagare le imposte alla stessa collettività di cui fai parte e ricevere in cambio i servizi, che pagare direttamente i servizi a qualcuno che deve guadagnare sulla tua pelle: non occorre essere un pozzo di scienza per rendersi conto che, nel secondo caso, si paga molto di più e si ha molto di meno. E non vengano a menarcela con il mercato che fa spontaneamente da regolatore tra domanda e offerta: Adam Smith, che fu il primo a teorizzarlo, escluse tassativamente che si potesse parlare di mercato là dove esistono oligopoli e cartelli: insomma, si tratta di una pura astrazione teorica, molto lontana dalla nostra realtà quotidiana – ormai, se non ci siamo totalmente rimbambiti, dovremmo essercene resi conto.
Allora, se vogliamo davvero preoccuparci della nostra sicurezza e della qualità della nostra vita, lasciamo pure perdere per un po’ i musulmani e gli immigrati e cominciamo (se non è già troppo tardi) a preoccuparci di chi sta mettendo in atto ogni sottile strategia per derubarci di tutto ciò che può avere un minimo di valore nelle nostre esistenze. Personalmente non sono uno storico e neppure un economista, ma facendo qualche ricerca per il semplice piacere di farla, mi sono formato una serie di idee che non promettono nulla di buono.
La prima riguarda la vita media delle persone. Si ha un bel dire che oggi si vive più a lungo di prima grazie ai progressi della Scienza ma, senza nulla togliere ai progressi stessi, l’incremento della nostra vita si deve principalmente all’invenzione dello Stato Sociale, che ha garantito l’assistenza sanitaria di base a tutta la popolazione a prescindere dal reddito e, attraverso la previdenza, la sopravvivenza autonoma degli anziani, non più costretti a gravare sul resto della famiglia. Basta andare a confrontare i dati sulla durata media della vita con quelli sulla qualità dello Stato Sociale, per rendersene conto: dove lo Stato incassa le imposte e eroga i servizi, si vive più a lungo e verosimilmente meglio di dove questo non avviene. Ora, se due più due fa ancora quattro, smantellando lo Stato Sociale, uno dei principali effetti sarà quello di farci vivere meno e peggio. Però, così facendo, spenderemo molto di più e faremo vivere ancora meglio quelli che già hanno tutto e in più anche il superfluo: caspita, che nobile ragione!
Se qualcuno desidera questo, buon per lui: secondo me, è una sciagura e non faccio niente per nasconderlo.

Due parole sulle scuole private. Direi che sono qualificato per parlarne più di quanto i nostri ministri siano qualificati a parlare di qualsiasi argomento, dato che ci ho insegnato per quattro anni. La scuola privata è, di solito, un posto in cui il titolo di studio non si prende ma si compra. Finché si paga la retta e non si provocano troppe difficoltà, si va avanti senza problemi, che si studi o no, che si impari qualcosa o no. La leggenda vuole che le scuole gestite da ordini religiosi offrano una qualità di istruzione superiore a quella della scuola pubblica. Sarà. Ma per offrire un’istruzione di qualità occorre avere dei buoni insegnanti e, per avere dei buoni insegnanti, occorre innanzitutto pagarli. Ora, è vero che gli stipendi della scuola pubblica sono modesti: ma quelli della privata sono anche peggio, per di più a fronte di un carico di lavoro spesso molto superiore e di un livello di sottomissione alla dirigenza incommensurabilmente più pesante. Se uno che può insegnare alla pubblica va alla privata, nessun genitore responsabile dovrebbe affidargli i propri figli, perché è evidente che gli manca qualche venerdì. Ma sono casi rari e trascurabili. La quasi totalità degli insegnanti delle private sogna la scuola pubblica con la stessa intensità con cui io, a diciassette anni, sognavo Debra Winger (“Ufficiale e gentiluomo”) o Karen Allen (“I predatori dell’Arca perduta”) e sono certo che, offrendo al più stimato docente di scuola privata un impiego da bidello in quella pubblica, la probabilità che accetti è pari al 100% o giù di lì. Insomma, mettetevi l’anima in pace: alle private insegnano gli scarti delle pubbliche. A volte (p.es. nel decennio dopo il 1990, in cui non sono stati banditi concorsi ordinari per le medie e le superiori), il livello si alza grazie ai giovani come il sottoscritto che, per mettersi qualche spicciolo in tasca nell’attesa di una sistemazione migliore, sono disposti a cominciare a fare tutto ciò che capita: ma la pacchia dura giusto fino a quando si apre una minimo possibilità di ottenere un lavoro migliore. Quando insegnavo alle private, spendevo una cifra ragguardevole per inviare domande di assunzione dappertutto e partecipavo a tutti i concorsi banditi dalle pubbliche amministrazioni: non c’è stato un giorno, tra quelli trascorsi lì, in cui il mio principale desiderio non sia stato quello di andarmene. E tutti i miei colleghi la pensavano esattamente come me.
Un’altra leggenda, cara agli elettori di destra, è che agli impieghi pubblici si acceda solo per raccomandazione. E’ particolarmente degno di nota il fatto che tra i principali sostenitori di questa teoria ci siano i dipendenti stessi, per l’esattezza quelli che sono anche elettori di centrodestra (categoria che mi auguro sia stata drasticamente ridimensionata dalle iniziative di Brunetta). Parleranno forse per esperienza diretta? Io sono passato per tre amministrazioni pubbliche diverse (un ente locale, un ministero e la scuola), entrando sempre come vincitore di concorso e senza mai essere stato aiutato da nessuno, in nessun modo. Non sarò stato la regola, ma neppure credo di costituire una rarissima eccezione (non vedo, infatti, per quali arcani motivi dovesse toccare proprio a me): la mia esperienza è questa e immagino sia sufficiente a smentire le leggende apocalittiche. Certo, ho dovuto sbattere per anni da una parte all’altra dell’Italia, ma un sacrificio del genere lo avevo messo in conto ed ero abbastanza giovane e determinato per affrontarlo.
Facendo tanti concorsi ho imparato molte cose e messo a punto una teoria su come si vincano. Ci sono, in effetti, due componenti da tener presente: il merito e le circostanze. Il merito consiste nella propria capacità di prepararsi bene e di rendere al meglio delle proprie possibilità. Le circostanze sono di due tipi: quelle non controllabili (che si possono anche chiamare “fortuna”) e quelle controllabili. A quest’ultima categoria appartengono le raccomandazioni, di cui non voglio certo negare l’esistenza.
Riguardo il mio concorso nella scuola, credo di aver vinto grazie al merito per il 95% e alla fortuna per il 5%. Forse mi sto dando un po’ di arie, però non capita sempre di incontrare qualcuno che, pur svolgendo a tempo pieno un altro lavoro (non riguardante il suo campo di studi), continua ad aggiornarsi tenacemente nelle materie che ha studiato, fino a trovarsi addirittura più avanti di quelli che se ne occupano professionalmente. Non ho seguito nessun corso di preparazione a pagamento, mi sono preparato da solo, nel tempo libero, utilizzando tutti i numerosissimi libri che avevo acquistato e letto nel corso degli anni. Il 5% di fortuna si giustifica con il fatto che le tracce delle due prove scritte riguardarono una l’argomento della mia tesi di laurea (peraltro discussa dieci anni prima) e l’altra un tema su cui avevo superato (purtroppo non risultando vincitore) un concorso pubblico di livello direttivo (ma anche questo, ben otto anni prima). Insomma, ebbi due buone carte da giocare e, rendendo al 100% dei miei mezzi, le feci fruttare al meglio.
Ora, non pretendo di mettermi a sostenere che tutti gli insegnanti della scuola pubblica abbiano un simile passato alle spalle, ma è anche vero che, su milioni di persone comunque selezionate (a volte con criteri più rigidi, altre con un certo lassismo), si trovano rappresentate tutte le possibilità: si va dal 95% merito + 5% circostanze non controllabili al 5% merito + 95% circostanze controllabili, ossia il raccomandato-tipo, che però è un caso raro (uno che dispone di simili protezioni, difficilmente si accontenta di un posto da insegnante). Chiamando in soccorso la matematica e, in particolare le curve gaussiane, direi che la maggior parte dei miei colleghi si aggira intorno al valore di 50% merito + 50% circostanze, per lo più non controllabili (anche chi ti può raccomandare, questo lo sanno tutti, ti dice sempre che “verba volant, scripta manent”, quindi il suo intervento si può esercitare sul risultato degli orali, mentre almeno lo scritto devi essere in grado di passarlo da solo: e, se sei in grado di passare lo scritto da solo, l’aiuto esterno ti fa passare davanti a qualcuno ma non fa la differenza tra promozione e bocciatura). Insomma, non sono dei geni, ma neppure da buttare.
E adesso, scusate, mi dite come si selezionano gli insegnanti delle scuole private? Quanto c’entra il merito, quanto le circostanze, quanto le raccomandazioni? La mia opinione è che il merito non sia minimamente considerato: anzi, essere troppo bravo può rivelarsi addirittura un ostacolo, perché potresti non accontentarti dello stipendio di fame e dello stato di schiavitù e andartene alla prima occasione, magari in mezzo all’anno scolastico o sotto gli esami. Quanto alle circostanze, peseranno un poco, ma non certo quanto le raccomandazioni. In Italia, si parla di raccomandazioni solo in riferimento al lavoro pubblico (dove sono una piaga ma non la regola), ma per quello privato sono la regola e nessuno ci trova niente da ridire. E’ noto che i collocamenti potrebbero tranquillamente chiudere senza danni per nessuno, perché il privato assume quasi sempre per conoscenza diretta o segnalazione. I datori di lavoro si preoccupano di verificare la capacità di chi assumono solo se svolge una professione tecnica altamente specializzata, tipo ingegnere: lì devono pagare stipendi come si deve e un investimento sulla persona sbagliata può comportare notevoli danni. Ma un insegnante, suvvia! I nostri adolescenti sono così ignoranti che chiunque abbia abbastanza parlantina e faccia tosta potrebbe permettersi di salire in cattedra: nella mia esperienza alle private, ho insegnato materie di cui fino al giorno prima non avevo la minima idea; preparavo le lezioni in treno, la mattina in cui dovevo tenerle, mentre mi recavo a scuola.
Insomma, se esiste un modo migliore del “buono scuola” per sperperare il denaro pubblico, fatemelo sapere… L’unico vero vantaggio delle private è che più si paga, più si ha, però in termini di baby-sitting, non di istruzione: mai un giorno di sciopero, tempo prolungato all’infinito, attività estive e nelle vacanze... Tanto ai proprietari non costa nulla più del minimo: ci pensano gli schiavi che ci lavorano a tenere in piedi la baracca per quattro spiccioli in più.
Quindi, per osannare la scuola privata come trionfo della libertà e della pluralità dell’istruzione, bisogna avere delle opinioni molto personali su entrambi questi concetti. In democrazia, questo rientra nei diritti di ogni cittadino. Ma, da qui a far pagare alla collettività (anche solo in parte) il diploma comprato dai figli di papà refrattari allo studio, mi sembra che ce ne corra, e tanto.
Il centrodestra ha vinto le elezioni e può governare come vuole, nessuno dice il contrario: ma almeno la smettano di riempirsi la bocca di espressioni come giusta selezione e meritocrazia, che sono esattamente agli antipodi della loro concezione del mondo.