Certe parole stanno spesso sulla bocca delle persone sbagliate. Penso, ad esempio, a discriminazione. Ogni scusa è buona per tirarla in ballo e, una volta infilata nei discorsi, riesce quasi sempre a far apparire un campione o un martire della lotta per i diritti umani chi la usa.
Io non la uso quasi mai. E’ una sorta di sciopero lessicale. Parto dal presupposto che l’unico modo per ridare un senso a dei termini che, ormai, si usano “per il loro suono, non per il loro significato” (come i “sempre” e i “mai” degli amanti in una bellissima poesia di Vicente Aleixandre), è fare a meno di usarli finché non si è proprio costretti a servirsene per mancanza di alternative.
La maggior parte delle persone che denuncia pubblicamente di aver subito discriminazioni, può farlo perché ha accesso ai mass media: quindi, ci andrei cauto prima di prenderli sul serio. Finché uno può far sentire la propria voce, non è discriminazione: tutt’al più è discriminazione all’acqua di rose. Per subire una vera discriminazione, occorre essere del tutto indifesi, e quindi non poter neppure trovare ascolto. Provate a chiedere in giro, alle persone che incontrate casualmente, se hanno mai subito discriminazioni in vita loro: almeno il 99% vi risponderà di sì. A prenderli tutti sul serio, si arriverebbe a credere che le nostre città siano piene di SS e di “cavalieri” del Ku Klux Klan.
Personalmente, non ho mai discriminato nessuno. Anche se il mio status di maschio, bianco, eterosessuale, non portatore di handicap, borghese (però non sono anglosassone e neppure protestante, quindi non posso fregiarmi del titolo di WASP) fa di me il soggetto adatto a essere accusato di chissà quali crimini in questo campo. Invece no, ho avuto tante buone occasioni per discriminare mezza umanità, eppure non l’ho mai fatto. Saranno le abitudini mentali prese da ragazzo, quando praticavo molto sport, ero un podista di modestissimo livello e giocavo in una squadra di calcio decisamente scarsa, ma ho sempre avuto una netta predisposizione a schierarmi dalla parte dei perdenti e degli sfigati, senza vergogna, come se fosse naturale trovarmi là.
Mai approfittato della situazione con una donna, anzi. Il massimo che sono arrivato a fare con loro è stato farmi prendere consapevolmente per il naso e di godere nel farmelo fare (come il protagonista della canzone Vipera: “e vo’ il suo bacio che mi rende vano, la sua perfidia che mi fa piacere”). Lo stesso con gli extracomunitari, che ho avuto spessissimo come compagni di viaggio nella mia vita da pendolare in seconda classe e con cui sono stato meglio che con molti italiani. E non parliamo dei gay: se qualcuno vuol provare a determinare il fardello emotivo che può toccare a un insegnante coscienzioso, deve provare a immaginarselo mentre protegge o difende un alunno o un collega gay (perché, sì, ne esistono e alcuni neppure si nascondono; e, checché ne dica Fini, non traviano nessuno) dall’ostilità del “branco” che aspettava solo un “diverso” da angariare. Quanto ai diversamente abili, non posso davvero rimproverarmi nulla, non mi sono arreso neppure davanti al duro impegno di imparare, di volta in volta, le varie espressioni politicamente (o forse dovremmo dire ipocritamente) corrette che si coniano quando quelle precedenti sono assorbite dal turpiloquio del parlare quotidiano (suppongo che la prossima sarà: “perfettamente normali”).
Qualche tempo fa, Michele Serra scrisse che il razzismo sarà veramente finito solo il giorno in cui un bianco potrà dare dello stronzo a un negro senza che nessuno si faccia sconvolgere dalla cosa. Sono d’accordo, mi piacerebbe che quel tempo fosse già arrivato. Allora potrei scrivere senza scrupoli ciò che penso dell’attuale ministro della Funzione pubblica, elaborando la battuta più malvagia che posso sull’argomento: e cioè che trovo lodevole per l’integrazione il fatto che abbiano scelto proprio un freak per la carica, ma che almeno avrebbero potuto sceglierne uno in cui la deformità si limitasse all’aspetto fisico.
Ma, tutto sommato, penso che posso permettermi ugualmente di scriverlo. L’ho detto, io sono pulito. Non ho nulla da nascondere. Potete passare a setaccio ogni secondo della mia vita. Non trovereste un’azione discriminatoria verso nessuno. Insomma, come direbbe la buonanima di Angelo Massimino, cui non a caso hanno intitolato il vecchio Cibali: “Ci sta chi può e chi non può: io può.”
Il ministro Brunetta, invece, non può. Se in Italia la discriminazione fosse considerata davvero un crimine e non solo una scusa per parlare a vuoto e farsi belli, un tipo così non solo non farebbe il ministro, ma probabilmente starebbe in galera. Se c’è una cosa più insulsa del fare di tutta l’erba un fascio, dando dei “fannulloni” in blocco a una categoria che comprende milioni di persone (con l’aggiunta di proponimenti tipo: “Colpirne uno per educarne cento”, tanto perché sia chiaro che si ritiene di avere a che fare con una razza inferiore), è farlo per i motivi più pretestuosi che si possano immaginare. L’argomento era nell’aria da un pezzo, ed era stato sollevato da più parti in campagna elettorale. Diciamo la verità, poi: il problema esiste e non si può negare. Io stesso, nella stagione di maggiore illusione e follia della mia vita, la campagna elettorale del 2006, lasciai un contributo al riguardo su “La fabbrica del programma”, che esprimeva perfettamente il mio punto di vista. Forse si può ancora leggere ma, in ogni caso, ne ho conservato una copia e, più tardi, lo aggiungerò a questo blog.
Ma un conto è sollevare un problema, un altro è ingigantirlo a dismisura per ricavarne dei vantaggi e per distogliere l’attenzione da altre situazioni. Quando personaggi come Montezemolo, la Marcegaglia e tutto il resto del gruppo dirigente di Confindustria, ossia tutta una banda di magnaccia che tra il 2001 e il 2006 si sono ingrassati a dismisura sulle nostre spalle (non che non lo facessero anche prima, ma lì hanno perso ogni freno inibitore: ci sono studi che parlano di palate di miliardi spostati in quel periodo dalla ricchezza di chi vive percependo uno stipendio a quella di chi invece campa di profitti, interessi e rendite), ne parlano come di una emergenza nazionale, sanno benissimo di poterlo fare senza essere tacciati pubblicamente di ridicolo o malafede perché possono appoggiarsi a una maggioranza parlamentare abbastanza forte e coesa da prendere e portare avanti iniziative quali normalmente si vedono solo negli stati totalitari. Perché di questo dobbiamo subito renderci conto, se non lo abbiamo ancora fatto, noi dipendenti pubblici: è in corso una caccia alle streghe (per carità, mica una sola: pensiamo ai clandestini, ai rom, tra un po’ ai meridionali al Nord) e l’obiettivo è quello che ha sempre guidato tutte le cacce alle streghe: togliere e arraffare. Il favore di un elettorato affamato di briciole e caratterialmente immaturo al punto da schierarsi in massa dal lato di chi non fornisce idee e progetti, ma solo “nemici” con cui prendersela, non sarà mai compromesso da iniziative simili.
Non è un motivo per subire rimanendosene con le mani in mano, ma su un punto dobbiamo rassegnarci: la Storia è sempre andata così, specie in Italia. Tutte le coscienze hanno un prezzo, ma nel nostro Paese è perennemente stagione di saldi.
Veniamo alle ragioni pretestuose cui accennavo prima. Per settimane, da tutti gli organi di informazione, ci hanno letteralmente spaccato i cabasisi (Montalbano docet) sulla faccenda delle troppe assenze per malattia dei dipendenti pubblici rispetto a quelle dei lavoratori del privato. Sono state esibite cifre inequivocabili al riguardo dai vertici (vistosamente indignati) di Confindustria. I soliti leccapiedi prezzolati dell’informazione (Clarinetto di Animal Farm non sarebbe mai riuscito a scrivere su Libero o su Il Giornale o su La Padania: non sarebbe mai stato abbastanza servile) hanno tirato fuori tutto il repertorio delle notizie sugli uffici pubblici risultati deserti ai controlli, sugli uscieri che ufficialmente risultano in agonia mentre in realtà stanno facendo un altro lavoro in nero (probabilmente, si suppone, per pagarsi il turismo sessuale nei paesi in cui si pratica la prostituzione infantile), sulle impiegate che marcano il cartellino e poi vanno a farsi impupazzare dall’estetista (in modo, è facile immaginarlo, da poter guadagnare di più facendo le squillo di alto bordo o le attrici di cinema porno), e chi più ne ha più ne metta. La posizione unanime è stata: non soltanto in Italia si pagano troppe tasse, ma la maggior parte serve a mantenere un esercito di parassiti, che sono anche dei degenerati morali.
Sarà. Ma intanto, mi sarebbe piaciuto che dai sindacati (gli unici che sono ancora abbastanza forti e visibili da farsi sentire) fosse arrivato almeno un tentativo di mostrare l’inattendibilità di certe conclusioni. Io non sono nessuno ma, riflettendo razionalmente sulle cifre delle assenze per malattia tra lavoratori pubblici e privati, mi sono fatto qualche idea su come si possa spiegare almeno parte della differenza senza criminalizzare nessuno: o, al contrario, criminalizzando i veri criminali.
La prima osservazione è che il ricambio del personale pubblico, da almeno 20 anni a questa parte (mi pare che il primo “blocco delle assunzioni” in Finanziaria risalga addirittura al 1987), è stato piuttosto lento. Dunque, l’età media dei dipendenti pubblici è piuttosto alta, certo più alta di quella dei privati. E non occorre essere titolari di una cattedra di Epidemiologia all’Università per sapere che i tassi di morbilità (cioè la facilità con cui ci si ammala) crescono con l’età, particolarmente nella fascia che comincia dopo i 40 anni. In altre parole, nella situazione presente, è fisiologico, almeno entro certi limiti, che i lavoratori pubblici si ammalino più dei privati.
Seconda osservazione. Questa me l’ha suggerita la lettura del libro Una paga da fame, di Barbara Ehrennreich (ovviamente, leggetelo: è uscito in tascabile da Feltrinelli e costa meno di una pizza). Forse non sono i pubblici a fare troppa malattia, sono i privati che ne fanno troppo poca. Il racconto della Ehrenreich (una giornalista che ha provato per alcune settimane a vivere come un’operaia precaria) sulla sua esperienza in un’impresa di pulizie, resta impresso soprattutto per la descrizione della sofferenza fisica sua e delle sue colleghe, della loro assoluta dipendenza da farmaci di ogni tipo, dal loro terrore di far conoscere al “padrone” (per il timore di essere licenziate), non solo le loro malattie ma anche i loro infortuni, compresi quelli sul lavoro. Mi direte: ma lì stanno in America, è diverso da qui. Credete? Contenti voi… Purtroppo, è diverso solo là dove valgono tutele tipo quella rappresentata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che scatta solo nelle imprese che hanno più di 15 dipendenti. E queste costituiscono solo una minima parte di quelle italiane. Nella maggior parte dei casi, le tutele sono molto, molto ridotte. Provate a leggere Senzadiritti, di Giorgio Ricordy (un altro tascabile Feltrinelli che costa meno di una pizza) e fatevene un’idea. Io, a dire il vero, non avrei avuto neppure bisogno di affaticarmi a leggere tanto: uno dei pochi vantaggi di passare tutta la propria vita in quartieri popolari e viaggiando in seconda classe, sta nel farsi di prima mano una vasta cultura sulla qualità della vita di quelli più disgraziati di te. Che nel privato si possa essere licenziati perché ci si ammala o perché si resta incinte, siamo in tanti a saperlo: ma non facciamo congressi in Hotel a 5 stelle nelle migliori località turistiche come Confindustria, quindi possiamo soltanto raccontarcelo tra di noi.
Poi ci sono le esperienze dirette. A distanza di parecchi anni, ho ancora gli incubi al pensiero delle pressioni psicologiche che ho subito da giovane, quando insegnavo in una scuola privata: eppure avevo avuto la fortuna di trovarmi in una scuola dove, almeno, si cercava di rispettare gli aspetti formali della legge (non per niente, chiuse nel giro di pochi anni). Oggi che lavoro nella scuola pubblica, sono un semplice spettatore di come si sta “sotto il padrone”: penso, ad esempio, a quei poveri “assistenti materiali” che dovrebbero occuparsi, insieme agli insegnanti di sostegno, degli alunni diversamente abili non sufficientemente autonomi. Gli assistenti materiali sono dipendenti privati di ditte o più spesso cooperative che hanno ottenuto l’appalto del servizio dagli enti territoriali: in genere, hanno seguito un corso ad hoc per potersi occupare di persone non autosufficienti. Il tipo di lavoro è certamente ingrato ma non si può definire poco qualificato: non è il lavoro che possa fare chiunque, improvvisandosi. Tutti gli assistenti materiali che conosco, hanno contratti di lavoro delle forme più precarie, ignobilmente sottopagati, e aspettano ancora il pagamento di stipendi arretrati da mesi, talvolta da anni. Tutti si indignano a leggere per l’entità (davvero impressionante) dei finanziamenti che gli enti territoriali pagano alle ditte o alle cooperative che li hanno assunti, e giustamente si domandano perché a loro diano così poco e con tanto ritardo. Ma nessuno che conosco si è mai ribellato: anzi, quando parlano del “padrone”, abbassano sia la voce, sia lo sguardo, come per un riflesso condizionato. Sono pronto a scommettere che il loro tasso di assenteismo per malattia sia bassissimo, ma non mi sembra che il loro sia un esempio da proporre alla totalità dei lavoratori.
L’ossessione delle difficoltà materiali quotidiane, la mancanza di prospettive future, la frustrazione delle continue mortificazioni subite e l’abitudine a vivere una realtà in cui il servilismo è un merito, spingono facilmente le persone verso livelli di abbrutimento come non se ne dovrebbero più vedere in Occidente e nel XXI secolo. E una conseguenza di tale abbrutimento è una perdita di valori che mortifica la vita stessa. Nella primavera del 2001, ho sentito dire da due precari della scuola, per giustificare la loro scelta filo-berlusconiana alle elezioni politiche: “Schiattiamo noi, devono schiattare pure gli altri”. Non sono solo i “padroni” a esultare per la limitazione dei diritti (che loro chiamano privilegi) dell’impiego pubblico: ma anche gli stessi dipendenti privati, evidentemente ignari del fatto che, così facendo, si apre la strada perché in un futuro non lontano si tolga (o non si dia) qualcosa anche a loro.
Ma torniamo al nostro tema principale. Come Brunetta combatterà l’”assenteismo” dei fannulloni pubblici. L’elenco dei provvedimenti, a leggerlo, suona draconiano: ma, nella sostanza, è semplicemente ridicolo. La norma delle visite fiscali dopo un solo giorno di assenza esiste già da anni, ma è spesso disattesa dalle amministrazioni perché comporta dei costi non trascurabili ed è opinione generale che il numero dei fannulloni non sia tale da giustificarli: insomma, per recuperare 1 euro sgamando un falso malato, occorrerebbe spenderne 5 o 10 di controlli. Nel privato, un manager che assumesse iniziative con simili conseguenze, sarebbe probabilmente retrocesso a spugna per inumidire i francobolli: ma, si sa, in Italia non si diventa manager per le capacità, bensì per le parentele e le amicizie. Essere inetti e occupare posti di importante responsabilità non è una vergogna ma uno status symbol. In questo, diciamo la verità, Brunetta non è peggio di tanti altri, molti dei quali (penso a certi amministratori delegati della Fiat, per esempio) sono costati alla collettività molto più di lui.
Poi c’è la faccenda dell’orario di reperibilità obbligatoria, esteso in modo abnorme (per i soli dipendenti pubblici: ma siamo sicuri che la Costituzione lo consenta?). A cosa serve? Non si sa. In teoria, dovrebbe scoraggiare quelli che fanno il doppio lavoro ma, quanto a questo, le fasce orarie precedenti (10-12 e 17-19) erano già opportunamente calcolate in tal senso: tant’è vero che, per esperienza personale, quando stai in mutua, anche se sei in grado di uscire, non riesci a fare quasi nulla fuori casa. Riflettendoci, mi sono fatto un’altra idea: serve a rubacchiare qualche spicciolo a quegli sprovveduti (si spera pochi) che non avranno la cura di farsi annotare dal medico l’orario della visita sul certificato di malattia (infatti, fino a nuovo ordine, anche durante l’orario di reperibilità si può uscire per sottoporsi a visite o terapie mediche, purché i sanitari giustifichino l’uscita). Credo che la spiegazione sia davvero questa, che mi dà anche la misura delle persone con cui abbiamo a che fare: gente che a parole pretende di cambiare il mondo e passare alla Storia ma poi non disdegna i più meschini mezzucci pur di estorcere qualche euro a chi capita, magari a qualche disgraziato che già fatica ad arrivare a fine mese.
La trovata più geniale, invece, è quella sui certificati di malattia: che, per prognosi superiori a 10 giorni o dalla terza assenza nel corso dell’anno, dovranno essere rilasciati da strutture sanitarie pubbliche. Non so quanta gente si faccia fare i certificati pagando un medico privato quando può benissimo farseli fare gratis dal medico di base. Confrontando gli onorari dei medici privati con gli stipendi dei dipendenti pubblici, sarei incline a rispondere: nessuno che sia sano di mente. All’inizio, tuttavia, si era pensato che Brunetta ignorasse il ruolo dei medici di base nell’ambito della sanità pubblica (per uno che fa il docente universitario e il ministro, sarebbe quanto meno una vergogna), tant’è vero che lo stesso Ufficio Personale Pubbliche Amministrazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica (ribadendo peraltro quanto già affermato nel 2002 dal Tar del Lazio) ha ritenuto doveroso (parere del 04.07.2008) precisare che i certificati sottoscritti dai medici di base sono validissimi quali certificati rilasciati di struttura sanitaria pubblica. Si era diffuso addirittura un allarmismo generale circa la necessità di ritrovarsi costretti ad andare al Pronto Soccorso (giusto per esserne cacciati a calci da medici e infermieri impegnati con malati e infortunati in pericolo di vita) solo per giustificare la malattia. Per fortuna, sembra che ogni tanto qualcuno si ricordi che viviamo ancora (non si sa per quanto) in uno stato di diritto e che un qualsiasi deficiente non può fare il bello e il brutto tempo a seconda di ciò che gli dice la testa solo perché serviva un pagliaccio per fare il ministro e, avendo già occupato tutti i clown con altre cariche, nell’ultimo posto rimasto ci hanno messo un nano.
giovedì 24 luglio 2008
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2 commenti:
Dal blog di Beppe Grillo:
"Brunetta mi piace, è uno tosto, che sa farsi rispettare, come Napoleone di cui ha la stessa statura. Le sue direttive, ne sono sicuro, colpiranno come la folgore anche i dipendenti pubblici per eccellenza, i parlamentari.
Da una elaborazione de Il Sole 24 Ore, con riferimento ai dati Camera e Senato a fine 2007, si può scoprire chi sono gli assenti alle votazioni parlamentari. Brunetta mandi subito un medico fiscale ad Arcore. Silvio Berlusconi è infatti il primo assoluto con il 98,5% di assenze alla Camera. Se non è primo non è mai contento. L’attuale portavoce del PDL, Capezzone, ha totalizzato il 67,6%. Nei primi 10 c’è Sandro Bondi, in settima posizione, con l’87,5% e in quinta l’ex piduista Cicchitto con l’89,9%. Tutti pidilellini in fuga dal lavoro. Brunetta li faccia pedinare, vorremmo tutti sapere dove vanno, cosa fanno, se incontrano Veltroni.
Al Senato per il PDL le cose non migliorano. La posizione numero uno è Marcello Dell’Utri, 41,1% di assenze. Secondo assoluto il doppiolavorista Ghedini con il 38,7%. Un avvocato pagato dai cittadini con lo stipendio da parlamentare per difendere Berlusconi in tutti i tribunali d’Italia. Il re del doppiolavoro, un mito. Una soffiata per Brunetta: mandi subito un medico al tribunale di Milano, coglierà il Ghedini sul fatto mentre difende lo psiconano al processo Mills.
Se i dipendenti pubblici avessero le percentuali da desaparecidos dei parlamentari potremmo chiudere i ministeri e nessuno se ne accorgerebbe.
Ma il Parlamento esiste veramente? Se un parlamentare non va a lavorare per un solo giorno Brunetta mandi il medico
fiscale. Nel caso sia un condannato, un
prescritto, un inquisito (quindi spesso)
faccia accompagnare il medico dai
Carabinieri (per proteggerlo).
"
"Non si diventa rivoluzionari per scienza, ma per indignazione. La scienza viene in seguito a riempire e precisare questa protesta vuota."
Maurice Merleau-Ponty
Buona indignazione a tutti!
Brunetta e le "reti amiche", al peggio non c'è mai fine
vi posto un articolo molto illuminante di Giuliana Cupi
trovato su http://www.megachip.info/
Il sito è Copyleft: la riproduzione dei materiali presenti è libera e incoraggiata (basta citare l'autore), per cui buona lettura...
Se il Decreto Tremonti è ancora ampiamente misconosciuto a molti (anche purtroppo dei diretti interessati), della genialata suprema partorita dalla fervida mente di Brunetta non si sente proprio parlare e invece è più che opportuno sapere cosa il destino ha in serbo per noi. Trattasi del mirabolante progetto Reti amiche, capolavoro della paranoia di Stato che sembra essere diventata la ratio delle leggi recenti e venture come quella sulle impronte digitali per tutti o sullo stravolgimento del potere giudiziario per difendersi dal comunismo che lo impregna.
Le Reti amiche (di seguito RA), in rapida sintesi, permetteranno ai cittadini di fare a meno della malvagia e onnipresente Pubblica Amministrazione (di seguito PA) sostituendola con una costellazione di soggetti che, diversamente da questa, vogliono bene al pubblico: tanto per cominciare, le Poste (sì, proprio le vituperate Poste!) e i tabaccai, poi le farmacie, le banche, i Carabinieri e via dicendo. Queste oasi di benessere forniranno tutta una serie di servizi, dal rilascio di documenti amministrativi all'accettazione di bollettini INPS fino all'erogazione ai pensionati di somme minime di denaro tramite apposito Bancomat.
Ora, l'incoerenza interna del proclama è talmente tanta che è probabile che il mio sforzo di sintesi non basterà a non dimenticare qualcosa; ma ci provo lo stesso.
La semplificazione della documentazione amministrativa (DPR 445/00). In Italia da quasi dieci anni vige una legge secondo la quale la PA non può chiedere documenti al cittadino: è obbligata ad accettare l'autocertificazione e la dichiarazione sostituiva di atto di notorietà. Le occasioni per cui è necessario recarsi in un ufficio pubblico affrontando code e attese, perciò, sono diminuite notevolmente: negli ultimi nove anni io sono stata assunta da due diverse Amministrazioni e non ho dovuto fornire loro neppure un pezzo di carta. Per accertare la veridicità delle dichiarazioni le PPAA comunicano tra di loro e lo fanno da un bel po' di tempo, ma chi ha inventato le RA non lo sa o finge di non saperlo.
A ciascuno il suo mestiere. Esistono naturalmente ancora diversi casi in cui andare in un ufficio pubblico è necessario: per esempio, all'Anagrafe per il cambio di residenza. L'impiegato che sbriga la pratica e rilascia quanto richiesto è un pubblico ufficiale, cioè una persona che ha il potere di attestare una condizione o stato tramite un documento che, proprio in virtù della carica di colui che l'ha prodotto, fa fede pubblica. Se un documento viene emesso da un'autorità che non è legittimata a farlo si configura un vizio di incompetenza che inficia la validità dell'atto stesso.
Nel progetto di RA si parla di “terminali di un pezzo della PA che interrogano ed erogano servizi dell'intera PA”, ma l'Anagrafe non può emettere visure catastali, né l'INPS rilasciare un documento di identità. Tanto meno può farlo un tabaccaio, che è un privato cittadino e che non mi piacerebbe affatto avesse accesso alle banche dati del Comune o di altre PA, anche perché, diversamente dagli impiegati di queste, non è tenuto al segreto d'ufficio. Inoltre non si capisce perché, andando in una PA a farmi fare il certificato di un'altra, risparmierei tempo e fatica.
Il ragionamento che sta dietro tutto questo è molto semplice: delegittimare il ruolo della PA e di chi ci lavora lasciando intendere che quello che fa è talmente poco importante che chiunque altro dentro o addirittura fuori l'Amministrazione è in grado di farlo a sua volta.
La Rete, quella vera.
Le RA dovrebbero “permettere a fasce marginali della popolazione di usufruire dei vantaggi offerti da Internet e dalle ITC”: non si capisce come, a meno che con questo non si intenda il fatto che i tabaccai si doteranno di mezzi per la trasmissione telematica dei documenti (il caro, vecchio fax? Ce l'hanno già, grazie). Perché la gente godesse della comodità di Internet bisognerebbe che se lo potesse permettere, che lo sapesse usare (mentre naturalmente il nostro analfabetismo informatico è ben noto) e che le fosse consentito di avvalersene per semplificarsi la vita, per esempio per pagare i contributi INPS dei lavoratori domestici di cui si dice: “procedura simile a quella cui sottoposte le aziende ma chepesa sulle spalle delle famiglie, naturalmente assai meno attrezzate. Quest'operazione potrà essere svolta presso uno qualsiasi dei punti della Rete (Tabaccai e Poste), con le stesse modalità e impiego di tempo necessari per giocare dei numeri al Lotto o spedire una raccomandata”. Quello che pesa sulle spalle delle famiglie è il costo economico dei contributi e non certo il fatto di dover andare in Posta a pagarli: questa operazione si svolge già con le stesse modalità e lo stesso tempo di una raccomandata, ma di nuovo chi scrive non lo sa o non vuole saperlo. Quello che veramente farebbe risparmiare tempo sarebbe poter fare un semplice bonifico on-line proprio conto, ma questo non è consentito. Tutto il resto, compresa la fantascientifica promessa di “ridurre la mobilità fisica a vantaggio di quella virtuale” (teletrasporto?), è fumo negli occhi.
Il Bancomat delle pensioni.
“Per i pensionati a basso reddito, che costituiscono la maggioranza dei
casi, recarsi a ritirare la pensione è già un rischio, sottoposti come sono alla giostra degli scippi”: devi veri imbecilli questi scippatori, perché non si si occupano dei pensionati benestanti?
“L'accredito sul conto corrente riguarda invece una minoranza e risulta difficile a quanti domiciliano (sic) in Comuni diversi da quelli di erogazione”: che cos'è il Comune di erogazione della pensione? Chi domicilia cosa? Qualcuno mi spiega questa frase?
Ed ecco il Bancomat delle pensioni: “In qualsiasi posto si trovino sarà possibile recarsi presso un punto della Rete e chiedere di prelevare cifre anche modeste fino a 10 € annullando i rischi”.
Il motivo per cui molti anziani non si fanno accreditare la pensione su un conto sono molteplici: economici, culturali, di mancanza di aggiornamento. Magari hanno così pochi soldi che non ritengono sia il caso di aprirne uno o sono abituati da decine di anni a tenere i soldi in casa e non hanno l'intraprendenza sufficiente, la voglia, l'energia per cambiare un'abitudine consolidata; di fronte alla tecnologia, poi, vanno in crisi totale e, se non hanno imparato a usare una diavoleria come il Bancomat in tempi di maggior freschezza mentale, è difficilissimo che lo facciano a un'età più avanzata. L'immagine dei vecchietti che vanno a prelevare 10 euro dal tabaccaio con la tessera magnetica non mi pare molto credibile e poi basterebbe che la notizia si diffondesse perché i vari mariuoli cambiassero zona di lavoro per scipparli pure lì: o l'esercente si offrirebbe pure di scortare il vegliardo a casa?
Anche mia madre è andata avanti fino a pochi anni fa con il libretto al portatore, scomodissimo oltre che pericoloso, finché non l'ho fatto trasformare in un conto corrente. Dopo cinque mesi la pensione ancora non vi arrivava sopra e naturalmente pensai subito che l'INPDAP avesse sbagliato qualcosa o se ne fregasse di mandare avanti la pratica. Invece, proprio dietro suggerimento della persona che al telefono avevo quasi insultato, feci un rapido controllo e constatai che a non aver ancora provveduto era la banca: la privatissima, efficientissima, amichevolissima banca.
Il costo vivo. Ho colto l'occasione della domanda per il passaporto nuovo per fare una rapida inchiesta e ho chiesto in Posta se avrei potuto presentarla lì. Risposta: costa dieci euro di più e ci mette tre – quattro mesi invece che 35 – 40 giorni. “C'è un passaggio di più”, mi ha spiegato lo sportellista, “dobbiamo farlo avere noi alla Questura”. Meditate, gente, meditate...
Il cittadino cliente.
Non poteva certo mancare uno dei più vecchi cavalli di battaglia del berlusconismo d'accatto: il cittadino cliente, quello con cui si firma il contratto in campagna elettorale. L'operazione RA abbonda di metafore commerciali, da quella della concorrenza tra i soggetti che compongono la rete a quella della “logica demand driven sono le dei cittadini-clienti a guidare le tipologie di beni e servizi pubblici e le modalità con cui questi sono erogati”. Conosciamo benissimo questa logica imperante e ne vediamo gli effetti quotidianamente: aumento di beni e servizi prodotti, spesso superflui, ma inventati a bella posta per dimostrare che si può avere tutto e subito; e induzione di esigenze altrettanto inesistenti nella clientela (cittadinanza) in modo da alimentare il circolo vizioso: basta leggere il POF (Piano dell'Offerta Formativa) di una qualsiasi scuola media in competizione aziendale con una sua simile per trovarvi un inaudito assortimento di possibilità didattiche, meno probabilmente che un po' di cultura di base. Già adesso negli uffici postali si vendono libri (di infima qualità) e altra paccottiglia, non oso immaginare a cosa potremmo assistere se questo approccio prendesse piede: pensate per esempio se il cittadino cliente andando all'Anagrafe volesse trovare pure le previsioni del tempo. Altro che snellimento delle procedure...
Purché non sia PA.
Un amico blogger mi ha tolto le parole di bocca scrivendo: ”Brunetta insegue il consenso del popolino, quello per intenderci che se è in coda al supermercato fa il bue e non protesta e se, invece, è in coda alle Poste è sicuramente perché l'addetto allo sportello non sta lavorando abbastanza”. Gli italiani fanno code in un sacco di posti per ottenere servizi che pagano profumatamente (oltre che nei centri commerciali, in autostrada o nelle anticamere dei medici privati) senza battere ciglio né invocare la testa – o meglio il posto – di chi sta loro infliggendo quella seccatura; ma quando mettono piede in un ufficio pubblico si trasformano d'incanto in giustizieri che hanno nello stakanovismo il metro per decidere chi dovrà vivere e chi dovrà morire.
Le RA riproducono fedelissimamente questa contraddizione. Le PPAA sono luoghi distanti, disagevoli, odiosi, infliggono “l'onere aggiuntivo della scomodità e della perdita di tempo: si pensi al doversi obbligatoriamente recare presso uffici pubblici, spesso collocati in luoghi senza parcheggio”. A parte quest'ultima osservazione grondante ecologia e sostenibilità (dobbiamo pensare che si sperpereranno miliardi per creare parcheggi di fronte a ogni tabaccaio?), possiamo osservare che gli uffici pubblici sono organizzati logisticamente per dare un minimo di comfort chi aspetta mettendogli a disposizione una sedia su cui sedersi, mentre lo stesso non si può dire dei loro surrogati; e che lamentarsi dell'obbligo di andare in un ufficio pubblico per una determinata pratica equivale a lagnarsi della necessità di recarsi dal medico per essere visitati. “Si passa dalla cultura del “numeretto” e della fila a quella passeggiata e del contatto personalizzato”: questa frase è talmente patetica che non meriterebbe nemmeno di essere commentata. Hanno appena finito di dire che gli uffici pubblici sono scomodi perché non sono raggiungibili in auto che ce la menano con il piacere di fare quattro passi per andare da chiunque, purché non dipenda da un Ministero o da un Ente locale.
Curiosamente non si rintraccia menzione sulla perdita di tempo – quella sì fenomenale – cui si è sottoposti nelle strutture del SSN o in quelle dei Servizi Sociali e di cui ho avuto modo di parlare molte volte in passato: nessuno avverte la necessità di avvalersi delle nuove tecnologie per evitare alla gente la via crucis di tre code diverse in tre diversi luoghi per una singola visita o prestazione. Sarà che tutto ciò alimenta il florido giro d'affari della sanità privata e che, come mi disse un'assistente sociale, “le procedure sembrano fatte apposta per scoraggiare chi si rivolge a noi”.
Dove si vuole andare a parare.
Uno degli obiettivi che si prefiggono le RA è “la possibilità di ridurre gli uffici dedicati a basso traffico, fin qui sopravvissuti proprio perché privi di alternative”. Ergo: svuotiamo gli uffici che servono molta utenza dirottandola altrove così diventano a basso traffico; a quel punto potremo dire che non rendono e chiuderli, dopo averli sostituiti con soggetti privati che a noi non costano, ma al cittadino che se ne serve, sì. Vorrei far notare che, se un ufficio è a basso traffico, non ci si perde tempo, non si fa la fila e magari non si deve prendere neppure l'aborrito numeretto.
Ma l'enfasi sulla pratica sotto casa a tutte le ore si inserisce bene nella filosofia del lavoratore totale, stressato, sempre di fretta, che non ce la fa neppure a sbrigare le normali commissioni quotidiane e deve pagare per poter avere quello che con una maggior disponibilità di tempo potrebbe ottenere a costo zero. Il problema delle code ovunque, sia quelle deprecabili del pubblico che quelle ben accette del privato, si risolve anche ampliando la possibilità della gente di andare nello stesso posto, ma in momenti diversi, grazie alla flessibilità oraria, al part-time , a una maggior padronanza e a una miglior gestione della propria vita: tutte cose di cui siamo minacciati di essere privati sempre più massicciamente.
La domanda del passaporto l'ho poi portata io al Commissariato di zona: il mio venerdì non lavorativo serve anche a questo. Il poliziotto di turno, quando ha saputo che non ero lì a pregarlo di fare in fretta perché come tutti l'indomani sarei partita, ma che mi portavo avanti con il lavoro proprio per evitare affannose circostanze del genere, ha esclamato: “Signora, fossero tutti come Lei!”.
Tutti sarebbe troppo. Ma almeno il 50% + 1...
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