lunedì 18 agosto 2008

La realtà, il sapere e le Marie Antoniette

John Kenneth Galbraith sosteneva che quasi tutti gli economisti tendono ad avere poche idee nel corso della loro vita, a volte addirittura una sola, e che restano abbarbicati a queste anche quando si trovano davanti all’evidenza del contrario. Di questi tempi, possiamo considerare addirittura ottimistica una valutazione simile: magari si presentasse sulla scena del mondo accademico un economista in grado di concepire qualche nuova idea, e pazienza se saranno poche! O i veri innovatori sono tenuti deliberatamente lontani dagli organi di informazione o il panorama attuale delle scienze economico-politiche è desolante: non ci si smuove dalle stesse solite cose, ormai trite e ritrite, e quasi sempre non si fa fatica a identificare, dietro l’insistenza con cui un cattedratico continua a produrre una dietro l’altra quelle che spaccia come prove inconfutabili della validità della propria posizione, quali sono gli interessi che lo muovono (in altri termini, chi è che lo paga profumatamente per sostenere quel principio e non un altro).
Un vero peccato, a questo punto, sta nel fatto che raramente gli scienziati (intesi come quelli che si dedicano allo studio della natura e al miglioramento della tecnica) si interessano abbastanza di economia e politica da diventarne veri esperti; e, anche quando sembra che lo diventino (ad esempio, per ricoprire importanti cariche istituzionali), spesso si lasciano pesantemente condizionare dalle loro convinzioni politiche, con la conseguenza che si ritrovano fuorviati quando si trovano a dover valutare situazioni che, in uno stato di normale lucidità, guarderebbero da un punto di vista diverso. Piaccia o non piaccia ai vari nostalgici del periodo delle tenebre (che sono, purtroppo, innumerevoli, specie in Italia), il metodo scientifico e gli altri strumenti di ragionamento che abbiamo messo a punto a partire dall’Illuminismo, forniscono a chi sa impiegarli un sano criterio di scetticismo, che permette di muovere obiezioni sensate a qualsiasi teoria: obiezioni capaci di migliorare le teorie valide evidenziandone costruttivamente i punti deboli e di far crollare quelle inattendibili, smascherando tutto ciò che è falsato o interpretato forzatamente in quelle che dovrebbero essere le prove.
Forse, se in Italia si incoraggiasse sin dai primi anni di scuola la lettura dei semplici volumi divulgativi redatti dagli esponenti del Cicap (il gruppo di studiosi e appassionati che indagano scientificamente sull’attendibilità dei fenomeni spacciati per “paranormali”, comprendente, tra gli altri, Piero Angela, Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia e un bel po’ di altre menti eccelse), nelle prossime generazioni potrebbe cominciare a formarsi un po’ di quello spirito critico necessario a dare un senso a una vera democrazia (perché dare qualsiasi libertà, a partire da quella di voto, a un ignorante superstizioso equivale a fare il gioco dei più disonesti manipolatori: questo non significa che l’ignorante in questione debba essere limitato nei suoi diritti umani, ma che va fornito degli strumenti culturali necessari a uscire dal suo stato di handicap. E’ inutile sottolineare che un simile compito può essere svolto solo dalla scuola pubblica, per conto dello Stato e nell’interesse generale). Ma, al momento, tutti quelli che basano la loro fortuna sul contrario, possono stare tranquilli. Non sono certo questi i tempi adatti a una trasformazione simile.
(Per inciso, a volte trovo che quelli del Cicap siano un po’ troppo drastici su alcuni argomenti; in altri termini penso che, sia pure in perfetta buona fede, mostrino i limiti della cultura in cui si sono formati: che è quanto di meglio l’Uomo abbia mai prodotto finora, ma è ancora molto migliorabile. Però, in ogni caso, riguardo al metodo, non li batte nessuno: ed è quello il punto più importante.)
La sto prendendo un po’ alla larga, lo ammetto: però sto parlando di una cosa seria, di un problema reale che si ripresenta quotidianamente. Da sedi istituzionali e ufficiali, cioè investite di una “attendibilità” che dovrebbe essere fuori discussione, arrivano troppo spesso opinioni che non soltanto sono discutibilissime, ma lo sono anche in modo così evidente che perfino un modesto professore di scuola media superiore come il sottoscritto, può farle a pezzi con poca fatica utilizzando pochi semplici ragionamenti logici. Tutto ciò è preoccupante: è la prova (stavolta davvero difficile da confutare) che la nostra civiltà sta affrontando un periodo di pesante decadenza, forse irreversibile.
Può darsi che, in fin dei conti, questo problema sia connaturato alla natura stessa delle istituzioni di cui stiamo parlando: per accedere al ruolo di docente universitario, soprattutto in Italia, occorre una trafila tanto lunga e incerta che si può stare certi che, alla fine, arriveranno a compierla solo i raccomandati di ferro o quelli che possono permettersi di vivere di rendita fino a un’età molto avanzata. Ora, per quanto possano essere dotati sul piano cognitivo, questi soggetti hanno una caratteristica che ne inficia in modo irreparabile l’attendibilità: appartengono tutti alla stessa classe sociale (quella di fascia più alta: le rarissime eccezioni sono state cooptate, quindi non contano) e non hanno mai avuto seriamente a che fare con soggetti di classi sociali diverse: chi non appartiene alla loro casta, in altri termini, vale quanto un numero in una statistica, non di più.
Questi ricercatori, quando si pongono davanti a un fenomeno di cui non hanno esperienza diretta, si limitano a giudicarlo come se lo conoscessero alla perfezione, regolandosi con lo stesso metro che applicherebbero alle loro faccende quotidiane. Di fronte ai tumulti della folla parigina, prima della presa della Pastiglia, concluderebbero, come Maria Antonietta: “Non hanno pane? Mangino brioches”. Senza che il paragone suoni offensivo per la sfortunata regina (che probabilmente, se avesse potuto scegliere, non avrebbe voluto essere così ignorante e superficiale), li potremmo definire proprio così: le Marie Antoniette.

Faccio l’esempio di una opinione del genere: la primavera scorsa lessi su “Il Sole 24 ore” un articolo di Andrea Ichino, economista dell’Università di Bologna, dal titolo piuttosto roboante: “Colpire l’assenteista tutela i più deboli”. Come concetto, non sembra campato per aria: riferendosi all’assenteismo nelle amministrazioni pubbliche e nei servizi da queste offerti, è nell’esperienza di ognuno di noi, per esempio, la lunga lista d’attesa per una prestazione medica: che a volte ci costringe, volenti o nolenti, a pagare quello che potremmo avere gratis per non perdere troppo tempo. Tenuto conto che parecchi non possono permettersi di pagare e sono quindi costretti ad aspettare (con tutti i problemi e i rischi che ne conseguono), se dietro il fenomeno delle lunghe liste d’attesa ci fosse un problema di assenteismo, ci sarebbe di che scandalizzarsi e indignarsi. Ma Ichino non si occupava di questo.
L’articolo faceva riferimento, invece, a una ricerca compiuta in Usa (North Carolina, per la precisione), dalla quale risulterebbe che, nelle scuole professionali (quelle cioè frequentate dagli alunni più scarsi), il tasso di assenza per malattia degli insegnanti è significativamente più alto che nelle altre scuole (quelle frequentate da alunni più capaci). Di conseguenza, concludeva, la qualità dell’istruzione offerta a dei soggetti già in posizione di svantaggio si abbassa ulteriormente. Ichino ammetteva di non conoscere la situazione in Italia, ma di presumerla molto simile. Il rimedio proposto? Penalizzare pesantemente le assenze per malattia, in modo da costringere gli insegnanti a fare lezione anche “con il raffreddore o il braccio al collo”.
Sarà che, come insegnante (dalla salute cagionevole, per di più!), sono molto sensibile a certe cose, ma, a me, questo (Ichino) mi pare uno che ha annusato l’aria che tira e si è immediatamente convertito alla moda del momento, ossia “dagli addosso a questi bastardi che stanno dalla parte di quelli che hanno perso” (anche se l’articolo è uscito prima delle elezioni politiche, il cui risultato era peraltro scontato). Può farlo, ne ha tutto il diritto. Ma paludare il proprio furbo opportunismo con un’apparente attendibilità scientifica è sempre e comunque un’azione ignobile.
Personalmente sono certo del fatto che, anche in Italia, le assenze per malattia degli insegnanti dei professionali sono superiori a quelle dei colleghi dei licei. Non ci vuole molto a capirlo, basta avere insegnato nei professionali e io l’ho fatto (Ichino, mi pare di capire, no). Nonostante quanto sostengono i nostalgici per i quali la riforma Gentile ha prodotto la migliore scuola possibile, il sistema dell’istruzione, dopo la scuola media unica, funziona così: i bravi vanno ai licei, i così così ai tecnici, gli scarsi (e gli scarti delle altre scuole) ai professionali. Gli alunni dei professionali (non tutti, per carità, ce ne sono anche di intelligenti e motivati, ma sono una minoranza che stimo inferiore al 10%) non sono solo scarsi come scolari, spesso valgono poco anche come persone: hanno famiglie inesistenti o assenti o irresponsabili alle spalle, non hanno valori positivi di nessun genere (è un ambiente in cui sono reclutati moltissimi tifosi violenti, tanto per fare un esempio) e, quanto a educazione e senso civico, si può dire che stiano al di sotto (parecchio al di sotto) di molti animali. Sia detto senza offesa (sono vittime di una certa situazione, che fa molto comodo a chi evita accuratamente di mescolarsi con loro, prima che colpevoli di ciò che fanno: anche se sapere questo non aiuta a sopportarli meglio), sono tipi che una persona normale frequenterebbe solo se fosse pagata per farlo. Viverci insieme anche per sole 18 ore a settimana, è uno stress tale che sarebbe impossibile non compromettere la propria salute. Sprecando tutta la più buona volontà, quando ero al Professionale (e sono stato in un buon Professionale, i colleghi degli altri mi invidiavano) ho perso parecchie ore della mia vita cercando unicamente di evitare disastri (del genere di danni, feriti e morti accidentali), in mezzo a gente la cui compagnia avrebbe ridotto in frantumi anche un Ego di dimensioni smisurate. Figuriamoci come avrei potuto andarci con il raffreddore o il braccio al collo. Già in condizioni di massima efficienza fisica rischiavo quotidianamente di essere sopraffatto.
Una cosa che Ichino non sa (o finge di non sapere) è che, quando succede qualcosa di grave nella classe in cui stai facendo lezione, tu insegnante rischi seriamente di passare un grosso guaio. E, se per caso provi ad accampare la scusa che la situazione ti è sfuggita di mano perché non stavi bene in quel momento, puoi stare certo che non ti daranno una medaglia e neppure ti riconosceranno una minima attenuante. Al massimo, ti diranno che sei stato un babbione a non darti malato. Non voglio farne una colpa a Ichino, ma al mondo le cose funzionano così.
Inoltre, qualunque medico (forse perfino quelli laureati con il Cepu) può spiegare quanto sia opportuno che le persone affette da malattie infettive se ne stiano a casa, il più possibile isolate. Questo è tanto più vero a scuola, in cui si sta in tanti (molti di più da quando sono venute la Moratti e la Gelmini) in spazi ristretti e, d’inverno, chiusi. Se vado a fare lezione con il raffreddore, come minimo infetto 15 ragazzi: non so quanti genitori mi sarebbero grati per questo. Ci si lamenta tanto della spesa sanitaria, manco fossimo tutti ipocondriaci al massimo livello, ma limitarsi a suggerire delle semplici strategie igieniche nell’interesse di tutti, è una cosa tanto difficile? Evidentemente sì, se Ichino, dall’alto della sua posizione, afferma addirittura il contrario.
Insomma, la mia sensazione è che Ichino (in buona fede? O perché così conviene ai suoi committenti?) descriva il fenomeno indicando solo gli aspetti che gli fanno comodo. Non cerca, evidentemente, una soluzione: si accontenta di scaricare tutta la responsabilità un capro espiatorio e ne trova uno che sembra davvero perfetto.
Il metodo seguito da Ichino è questo: la teoria è già pronta, bisogna cercare solo le prove. Si analizzano i fenomeni, si prendono i dati che confermano la teoria e si sottolineano; quelli che, invece, non la confermano o la smentiscono addirittura, si ignorano. Lo definirei, se non esiste già un altro termine specifico, “metodo ascientifico”. E’ lo stesso metodo (se qualcuno è curioso di approfondire la questione, ci sono diverse dimostrazioni di come funzioni nei gradevolissimi libri di Massimo Polidoro, un membro del Cicap) con cui si sono sempre costruite leggende e superstizioni dure a morire, partendo da fatti di dubbia interpretazione.
Ma Ichino è un ricercatore e docente universitario, quindi la sua opinione su argomenti di cui non ha la minima cognizione pesa molto più della mia e degli altri che sulla questione avrebbero tanto e tanto da dire.

Ne cito un altro, e questo è un pesce ancora più grosso: Alberto Alesina. Stando alle note biografiche presenti su Wikipedia (mi auguro che non se le sia scritte da solo), sarebbe così stimato in ambito internazionale che molti arrivano a pronosticargli un Nobel in futuro (Ma va’… in fondo, lo hanno dato anche a Milton Friedman: se mi permettete il termine, ormai è proprio sputtanato). Una decina di anni fa lessi un suo articolo (era sul “Corriere” o su “La Stampa”, non ricordo più). Purtroppo non trovo più dove l’ho conservato, ma ricordo abbastanza bene il titolo (qualcosa come “Il Nord continua a mantenere il Sud”) e il contenuto. In pratica, Alesina sosteneva che, poiché il costo della vita nel Sud Italia è più basso che nel Nord, con gli stipendi dello Stato a Sud si vive come nababbi (venite a casa mia, se volete vedere quanto ha ragione) e dunque i giovani meridionali preferiscono affrontare studi giuridici o umanistici con la prospettiva di raggiungere, prima o poi, l’agognato “posto” pubblico piuttosto che osare indirizzi di formazione diversi per prepararsi a entrare in affari come imprenditori. A prima vista, sembra una tesi scontata, con tante di quelle prove che ci si può permettere addirittura di scartarne qualcuna.
E qui sta il problema, perché la realtà non è poi così ovvia, se solo si prova a uscire dal salotto di casa Alesina e si guardano le cose come stanno. Ci sono almeno tre o quattro elementi che la influenzano pesantemente e che Alesina non considera proprio: chissà perché, sono tutti elementi in contrasto con la sua tesi.
Innanzitutto, il reddito familiare medio al Sud è più basso, le famiglie monoreddito al Sud sono di più, le famiglie sono mediamente più numerose al Sud che al Nord: conseguenza ovvia, far studiare i figli è mediamente più difficile al Sud che al Nord. Poi: gli studi universitari non hanno tutti lo stesso costo: quelli giuridici e umanistici costano di meno di quelli economici e tecnologici. Dunque, non ci si deve meravigliare che siano prediletti da quelli che hanno meno risorse da spendere. Poi, per avviarsi in campo imprenditoriale, si deve affrontare un costo iniziale, in termini monetari, enormemente superiore a quello che tocca a chi sceglie un lavoro dipendente: dunque, al Nord c’è molta più gente che può permetterselo rispetto al Sud. La possibilità di accedere o meno a forme di finanziamento, rappresenta il colpo di grazia: in nessun posto come in Italia è valido quel detto per cui “le banche prestano soldi solo a chi dimostra di non averne bisogno”, e questi sono molto più numerosi al Nord.
Insomma, il teorema di Alesina ne esce parecchio ridimensionato, eppure sembrava partire da una constatazione alla portata di tutti. L’errore, in questo caso, è spingere il ragionamento alle estreme conseguenze senza che sia necessario. Se tutte le matricole delle Università italiane potessero permettersi la Bocconi, avrebbe ragione Alesina; poiché non è così, Alesina ha torto. Uno come lui, se non c’è pane, mangia brioches: ed è convinto che questo valga per tutti. O, semplicemente, si mostra tale perché così conviene a quelli che lo foraggiano.
Penso sia superfluo far notare che Ichino e Alesina, oltre a essere studiosi piuttosto conosciuti, sono anche molto considerati negli ambienti di centro-sinistra. In altri termini, non rappresentano certo l’ala estrema di un liberalismo selvaggio ma una posizione che, in generale, si tende a considerare addirittura moderata. Su questo, magari, dovrebbe riflettere anche la sinistra dura e pura, quella che si considera alternativa a certe posizioni. Forse siamo in ritardo, ma un deciso cambiamento di rotta e una precisa assunzione di responsabilità non possono aspettare. Il mondo cambia rapidamente, cambia in peggio e ci lascia indietro. In un momento come questo, esibirsi rumorosamente in piazza, sventolare vessilli nostalgici, scandire slogan truculenti, sostenere a oltranza le ragioni di perdigiorno dal cervello fuso a forza di fumare canne, trascinare polemiche tanto annose quanto puerili su questioni tutt’altro che significative, serve solo a coprire (malamente) un vuoto pneumatico di pensiero e fa solo il gioco dell’altra parte. Occorrono idee, idee nuove e proposte per metterle in atto realisticamente, prima di precipitare in un nuovo oscurantismo.

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