sabato 16 agosto 2008

Successo e fallimento

Ignoro come vadano le cose negli altri paesi, ma ormai sono arrivato a farmi una ragione della realtà per cui, in Italia, nulla viene ritenuto più importante dell’apparenza, indipendentemente o meno dal fatto che dietro vi si trovi o meno della sostanza. Nonostante non siano affatto degli accaniti lettori di romanzi (e nemmeno di altri generi letterari, se è per questo), gli italiani tendono sempre a classificare i personaggi pubblici come quelli caratteristici di una certa narrativa popolare: per intenderci, quella che mostra i francesi come donnaioli pasticcioni, gli inglesi come snob eccentrici, i napoletani come insaziabili divoratori di pizza e instancabili strimpellatori di mandolino.
Ad esempio, in Italia si può benissimo passare per “persona seria”, “gran signore” o addirittura “galantuomo”, semplicemente avendo cura di abbinare convenientemente la giacca con la cravatta e sforzandosi di mantenere costantemente un’espressione accigliata, vagamente truce senza essere aggressiva. Questo, indipendentemente dalla propria condotta e dai propri discorsi: a questi dettagli, evidentemente trascurabili, non farà caso quasi nessuno. Quali esempi paradigmatici di personaggi simili, ne avremmo a bizzeffe: ma il campione insuperato della categoria resta, a mio giudizio, il leggendario presidente della commissione parlamentare sul “caso” Telekom Serbia, il senatore Enzo Trantino. A chi, in quel tempo, ebbe la pazienza di seguire tutti i servizi sui telegiornali e i vari approfondimenti sull’argomento, non poté sfuggire l’esilarante contrasto tra le surreali assurdità che il supertestimone Igor Marini inventava con più fantasia di un artista beatnik sotto l’effetto di massicce dosi di Lsd e l’atteggiamento di drammatica gravità con cui il Sen. Trantino si presentava a illustrarle davanti alle telecamere, avendo tutta l’aria di prenderle davvero sul serio. Sembrava di veder recitare un redivivo Buster Keaton, con la differenza che la maschera clownesca di Keaton era il risultato di anni e anni di paziente applicazione, mentre nel caso di Trantino si trattava dell’espressione di un talento naturale e spontaneo.
(Come sia finita la faccenda, mi auguro che lo ricordino tutti).

Purtroppo però la faccenda dell’apparenza più importante della sostanza non si può esaurire ricordando gli attori da Oscar finiti in Parlamento o addirittura a ricoprire importanti cariche istituzionali. La vita di quasi tutti noi (quelli che, per svariati motivi, non possono permettersi di comprare le vite degli altri) è condizionata a tutti i livelli dalla pervicace presenza, in ogni contesto, di soggetti che hanno accuratamente sovrapposto una maschera alla loro effettiva personalità e che, ogni volta che possono permetterselo, impongono al prossimo di considerare solo l’esistenza di questa maschera, come se la persona dietro non fosse mai esistita prima di mascherarsi. Questa posizione, riconosciamolo, è da psicopatici: ma, trattandosi di psicopatici non immediatamente pericolosi (e, spesso, di psicopatici che hanno una certa influenza sulla società perché largamente dotati di mezzi), in generale si tende a mostrare verso di essi una tolleranza che sfocia spesso nella condiscendenza. Molti italiani, poi (quelli che hanno improntato la loro vita al motto immortale: “Franza o Spagna, purché se magna”), il problema non se lo pongono nemmeno, finché sono liberi di fare i fatti loro, e sono disposti a credere a tutto ciò che in quel momento conviene credere. Di conseguenza, anche quando non vogliamo, siamo vittime di mistificazioni colossali, in cui non ci si limita ad alterare la realtà ma la si prospetta addirittura all’opposto di come è.

Non è questa la sede per ripercorrere tutta la biografia del nostro attuale Presidente del Consiglio: occorrerebbero migliaia di pagine anche solo per riportare qualche citazione da una minima parte degli atti giudiziari che lo riguardano. D’altronde, in questo momento non voglio esprimere alcun giudizio morale su di lui, ma semplicemente smascherare in dettaglio una delle tante bugie che ci propina quotidianamente. Non è nemmeno la più grave, ma è quella cui finora mi sono dedicato con maggiore attenzione.
Parliamo del suo “successo” in politica. Lasciamo perdere, infatti, il “successo” come imprenditore (sempre, appunto, per la storia delle citazioni degli atti giudiziari). In questo momento, chiunque assista a un telegiornale (specie quelli di Mediaset), o legga un quotidiano (specialmente “Il Giornale”, “Libero” e “La Padania”) può avere l’impressione che il governo italiano abbia a capo una figura storica dalla statura titanica, uno che può mettersi a competere con Giulio Cesare o George Washington senza rischiare di sfigurare. Uno che, quando sarà terminato il suo ciclo, costringerà gli storici a dividere il tempo in un ante e in un post, dove la sua presenza costituirà, appunto, la linea di demarcazione. Uno per il quale i nostri tempi saranno ancora ricordati, tra migliaia di anni (se l’uomo esisterà ancora), solo perché vi è vissuto lui. Insomma, se non un Padreterno, qualcosa di molto più simile al Padreterno che all’uomo. Un Messia: non a caso si è autodefinito “L’Unto dal Signore”.
Questo Messia, forse è il caso di ricordarlo, è in politica dal 1993: sono dunque quindici anni. In questo periodo è stato candidato per 5 volte alle elezioni: 3 volte ha vinto, 2 volte è stato sconfitto. Per un Padreterno, è un bilancio un po’ misero: si tratta di una percentuale di insuccesso del 40%. Per usare una delle metafore calcistiche che tanto gli sono care, nessun allenatore investirebbe del ruolo di rigorista uno che sbaglia il 40% dei penalties, fosse anche un fuoriclasse come Kakà o Ronaldo.
Andiamo poi a vedere in quale situazione si sono svolte le elezioni in questione. Il popolo italiano non è stato mai incline all’idealismo, nemmeno ai sacrifici di nessun genere (sono accettati solo quelli inflitti a qualcun altro) e, quanto a senso civico, siamo agli ultimi posti della classifica mondiale, superati anche da paesi in via di sviluppo. A questo popolo, il Messia si è presentato ogni volta nel modo più compiacente: forte della sua esperienza con la pubblicità, ha svolto qualche sondaggio su ciò che la maggioranza desiderava, ha messo insieme un programma vago ma altisonante in cui prometteva tutto a tutti e, approfittando della posizione di monopolio che detiene nell’informazione, lo ha fatto arrivare, con l’intensità di un bombardamento a tappeto, all’attenzione di tutti. E’ ricorso a ogni forma di semplificazione, pur di far rimanere le sue massime nell’orecchio di chi le ascoltava: le “tre I” del suo programma per l’Istruzione riecheggiavano in modo sinistro le “tre G” del programma antisemita di Goebbels, ma pochi ci hanno fatto caso e tanti si sono limitati a impararle come le pecore di “Animal Farm” (“Quattro gambe, buono; due gambe, cattivo”). Gli italiani non sono solo pagnottisti, sono anche opportunisti, pronti a saltare sul carro del vincitore: per allettarli ulteriormente, allora, il Messia ha offerto loro spettacoli di coreografie sfarzose, di platee immense che seguivano con la massima attenzione i suoi interminabili e sconnessi discorsi, sottolineandone i passaggi salienti con ululati collettivi quali non si sentivano dai tempi di Hitler a Norimberga, nel 1936; è un vero peccato che tra i suoi registi televisivi non se ne trovi uno che abbia almeno un millesimo del talento di Leni Riefenstahl: altrimenti, chissà, avremmo potuto avere un altro “Trionfo della volontà”.
Un’altra cosa di cui gli italiani sentono costante bisogno è qualche capro espiatorio cui attribuire tutte le colpe per le cose che vanno male: e il Messia ne fornisce un intero campionario, dagli immigrati ai sindacalisti, dai dipendenti statali agli intellettuali: tutte figure che l’italiano medio, in costante lotta con le regole (da quelle di convivenza civile a quelle grammaticali e sintattiche), già sopporta solo quando non ne può fare a meno.
Insomma, questo Messia è un capo fatto su misura per il suo popolo. La metafora calcistica di prima non è sufficiente: la sua candidatura alle elezioni non è come tirare un rigore in serie A, dove puoi trovarti davanti un Gigi Buffon (o un Pino Tagliatatela, per restare tra intenditori) capace di respingere anche un tiro quasi imparabile. E’, piuttosto, come tirare un rigore avendo messo in porta un vecchietto male in arnese che passava casualmente dalle parti del campo e non aveva mai giocato a pallone prima.
Ciò malgrado, il Messia ha toppato il 40% dei tiri a sua disposizione. Qui, evidentemente, non si sta parlando di Kakà o Ronaldo ma, volendo essere generosi, di Libera o Calloni.
Andiamo poi a vedere contro chi le ha perse, queste elezioni. In ambo i casi, il suo avversario è stato un personaggio di scarsissimo appeal, uno che ha alle spalle una vita operosa ma terribilmente grigia, modestissimo quale comunicatore, con alle spalle una sorta di Armata Brancaleone eterogenea e raffazzonata, pullulante di personaggi da cabaret incapaci di prendersi la minima responsabilità e perennemente impegnati a scannarsi reciprocamente in beghe puerili, e un programma di governo tragicamente impegnativo, mirante alla sopravvivenza attraverso sacrifici spropositati, senza promesse da paese di Bengodi… tutto l’opposto di ciò che gli italiani hanno sempre voluto, detto senza mezzi termini e, anzi, amplificato a dismisura dai mezzi di informazione controllati dal Messia. Nella seconda occasione, va aggiunto, l’Armata Brancaleone si è presentata alle urne con l’handicap di una legge elettorale elaborata e varata in tutta fretta apposta per farla perdere. Eppure ha vinto lo stesso, sia pure di poco. Il Messia naturalmente ha attribuito la sconfitta ai brogli: una teoria interessante, specie se si considera che sarebbe la prima volta nella Storia in cui i brogli sono stati compiuti dall’opposizione e non dal governo uscente, dopo che questo aveva piazzato uomini di sua fiducia in tutti i posti chiave.
Insomma, è come se il rigore con il vecchietto decrepito in porta fosse stato tirato da cinque metri, con il vecchietto legato stretto da catene e catenacci come il grande Houdini, e la palla fosse stata ugualmente calciata fuori. Evidentemente, il presunto fuoriclasse non solo non è Kakà, ma neppure Calloni. Al massimo, è Luis Silvio Danuello, il cameriere brasiliano che aveva fatto giusto due passaggi sulla spiaggia e, nel 1980, dei sedicenti esperti brasiliani segnalarono ai dirigenti della Pistoiese come una grande promessa del football carioca: per chi l’avesse dimenticato, in Italia giocò solo qualche minuto e non toccò praticamente palla, prima di essere rispedito al mittente.
Questo è l’uomo che, al momento, detiene il massimo potere nel nostro Paese: un cialtrone che si fa passare per un Messia. Se, l’imprenditore vale quanto il politico, c’è da meravigliarsi del fatto che non sia ancora finito a vendere fazzolettini di carta ai semafori. Forse, la spiegazione di questo, sta nelle famose carte giudiziarie di cui dicevo prima.
Ma, per ora, lasciamole perdere e poniamoci una domanda alla nostra portata: se questo è il successo, cosa sarà mai il fallimento?

Nessun commento: