lunedì 11 agosto 2008

Un aggiornamento sulle emergenze. La Signora Rottermaier, Attila e gli altri. Le Scuole pubbliche e quelle private

Sono passate quasi tre settimane dal fatidico annuncio della risoluzione dell’emergenza rifiuti in Campania e, bisogna ammetterlo, almeno non siamo più su tutti i telegiornali. A parte questo, non mi sembra di vedere immense differenze rispetto a prima.
Essendo un automobilista ligio al codice della strada, mi guardo bene dallo scattare foto mentre sto guidando e, in certi posti, non si ha la possibilità di fermarsi se non a rischio della vita (c’è una preoccupante abbondanza di campioni di Formula 1 mancati che sfrecciano da ogni direzione). Dunque, non ho immagini da proporvi per illustrarvi quanto sto per dire, mi limito a darvi un po’ di riferimenti geografici nel caso voleste andare a controllare da soli.
In queste settimane, oltre a un breve periodo di vacanza, ho girato poco, anche per via del caldo intenso, ma ho avuto modo di ammirare come nessuno si sia degnato di rimuovere le tonnellate di spazzatura che occupano, da mesi, diverse piazzole di sosta dell’asse mediano, in particolare: in vicinanza dell’uscita di Trentola-Centro Commerciale Jambo; in vicinanza dell’uscita di S.Antimo-Casandrino; tra Scampia e Piscinola; inoltre ho verificato come la periferia di Orta di Atella (dove la zona nuova finisce in quel che resta della campagna) sia una vera e propria discarica abusiva. Sul perché tanta schifezza sia rimasta in giro nonostante gli annunci trionfalistici, ho una mia teoria: hanno fatto, come si dice da queste parti: “’Ncoppa ‘o liscitiello e sotto ‘o pedocchiello”, ossia hanno pulito solo dove passano turisti e operatori tv, mentre altrove la situazione è rimasta più o meno la stessa (anche la differenziata, quando partirà? Ne stiamo parlando da mesi, ma ancora non si vede niente. E la spazzatura indifferenziata che produciamo a tonnellate, da qualche parte deve pure andare a finire: non oso chiedermi dove).
Il nostro Presidente del Consiglio, qualche tempo fa, raccontò che la mamma si preoccupò di spiegargli che al mercato la spesa si fa controllando tutte le bancarelle e poi acquistando la roba migliore al prezzo migliore (cosa che, personalmente, ho imparato da solo, ben prima che la vergognosa speculazione sul passaggio dalla lira all’euro impezzentisse i percettori di reddito fisso): purtroppo, l’attenta signora dimenticò di spiegargli che una brava massaia, quando fa le pulizie di casa, toglie di mezzo tutto lo sporco e non si limita a spazzarlo sotto il tappeto per non farlo vedere al parroco quando viene a benedire per Pasqua.

Passiamo ad altro: parliamo di scuola. Proviamo a scrivere qualcosa sulla ministra dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini. Innanzitutto, qualcosa di simpatico: è una donnina gradevole, piacente specie per chi preferisce il tipo “signora Rottermaier” (l’istitutrice che angariava la piccola Clara in “Heidi”) e sicuramente si presenta molto meglio delle sue colleghe di governo: la Carfagna, è diventata inguardabile dopo che qualche esperto di look (reclutato tra quelli che non toccherebbero, in senso stretto, una donna nemmeno con un fiore) le ha detto che dimagrendo come un’anoressica e tagliandosi i capelli alla maniera della conversa di Belfort sarebbe diventata la nuova Audrey Hepburn (intanto, quella originale si rivolta nella tomba); la drag queen Brambilla è sempre stata il tipo di donna più adatta a esaltare le inclinazioni degli omosessuali latenti, che nel nostro Paese costituiscono la maggioranza del sesso maschile (in particolare quella che vota a destra: e questo ne spiega l’ossessiva, morbosa omofobia) ma non rappresentano, ci auguriamo, la norma dell’intera umanità. Non me ne voglia Rocco Siffredi, non ce l’ho con lui ma con gli spettatori dei suoi film: avrò tutti i miei limiti, lo riconosco, ma non sono mai riuscito a divertirmi ammirando sequenze incentrate su peni di dimensioni gigantesche e ho qualche dubbio sulla virilità di chi ci riesce.
Qualcuno mi interromperà, a questo punto, per dirmi: ma come, stai parlando di una ministra o di una concorrente di “Veline”? E’ mai possibile che si finisce a parare sempre dalle stesse parti? Massì, lo so benissimo che sto parlando di una ministra, ma è pur sempre una ministra di un governo di destra, votato e rappresentato in larga maggioranza da soggetti per cui le donne servono a qualcosa solo quando sono in posizione orizzontale. Non faccio altro che uniformarmi alla scuola di pensiero cui esse stesse appartengono. Dovrebbero essermi grate, anziché offendersi, del fatto che non le tratto come tratterei come, ad esempio, la Guzzanti o la Littizzetto (per non parlare della Levi Montalcini).
Per dirla tutta, il fatto che la maggioranza attuale abbia messo proprio una donna all’Istruzione (il ministero dal quale io, insegnante, dipendo) mi è sembrato subito un pessimo segno: significa solo che non lo tengono in nessunissimo conto. Rapportato a un contesto familiare equivarrebbe, insomma, a pulire i gabinetti.
Infatti, a dispetto dei soliti proclami e del diligente impegno che la poveretta dimostra in ogni uscita pubblica, è già evidente che Maria Stella sta lì solo per un motivo, lo stesso che a suo tempo ci aveva portato un’altra simpatica signora, la Moratti: salire sul palco e prendere in faccia le uova marce e i pomodori fradici che, a rigore, toccherebbero a Tremonti, il grande demolitore che, con la scusa di far quadrare il bilancio senza disturbare i suoi più fedeli elettori, un po’ alla volta sta riducendo la scuola pubblica a un cumulo di macerie fumanti. Se Attila, ai suoi tempi, si fosse impegnato a distruggere l’Impero Romano d’Occidente un decimo di quanto si sta impegnando Tremonti a distruggere la scuola pubblica, S. Leone Magno avrebbe avuto voglia di predicare e offrire riscatti: non sarebbe servito a nulla e chi sa che piega avrebbe preso la nostra Storia
Il modo in cui questa distruzione sta avvenendo, peraltro, è degno di Attila: ossia, barbarico nella forma e nella sostanza. Se non fosse che ci vanno di mezzo le nostre vite (per ora soprattutto quelle dei colleghi precari, ma non dubito che prima o poi anche noi di ruolo pagheremo il conto), direi che tutto il disegno mostra prima di ogni altra cosa una cialtroneria che non ci si aspetterebbe da gente che ha avuto la fortuna di nascere e crescere in un Paese industrializzato, di compiere un percorso di studi completo in famose Università, di vivere a stretto contatto (se non addirittura dentro) con quella parte di società che decide i destini del mondo. E’ vero che, oggi, chi si trova a occupare i posti di responsabilità in Italia non è stato certo reclutato per le sue capacità, quanto piuttosto per la sua fedeltà canina a un padrone che paga profumatamente e pronta cassa… però, sì, diciamolo, un Paese che permette ai Brunetta e ai Tremonti di occupare addirittura cattedre universitarie, evidentemente, è già in uno stato di decadenza irreversibile. Qualunque idiota può diventare ministro o presidente, purché abbia alle spalle un partito politico abbastanza forte, ma l’accesso al ruolo di docente universitario dovrebbe (almeno in teoria) essere riservato a luminari della conoscenza, magari specializzati in un settore limitato, ma sempre di una levatura intellettuale superiore alla massa. Guardate bene, poi ascoltate bene Tremonti e Brunetta e poi giudicate con i vostri sensi.
Sono in vena di cattiverie: perché negarlo? La sfortuna, però, è che le mie possono solo restare sulla carta, non avere l’effetto di quelle altrui. Ma saranno poi, queste ultime, davvero cattiverie? Dietrich Bonhoeffer affermava di temere più gli stupidi che i cattivi, perché i cattivi, se pensano di ricavarne un tornaconto personale, possono persino compiere buone azioni, mentre gli stupidi sono capaci solo di fare del male (lo stesso concetto è stato spiegato in termini scientifici da Carlo Maria Cipolla). Quando appaiono in Tv i due campioni della nostra nuova politica statale, è quasi rassicurante ammirare l’aspetto da protagonista di film di Tod Browning di uno e quello decisamente eunucoide dell’altro. Due look che, tenendo ben presente l’innata crudeltà dei bambini di ogni tempo e paese, fanno pensare a infanzie più dolorose di quella di Oliver Twist, sia pure per motivi diversi, e a un solido e ben radicato odio per il resto dell’umanità quale elemento preponderante della personalità di entrambi.
(E non venite a menarcelo con le statistiche con cui Brunetta "dimostra" di aver rimesso in riga gli statali. Come se per cinque anni la Moratti non avesse sciorinato quotidianamente cifre e cifre su investimenti massicci a favore dell'istruzione, mentre noi che ci stavamo dentro ci accorgevamo solo di assunzioni bloccate, posti persi, istituti chiusi, fondi ridotti, stipendi immiseriti... forse al mondo esiste qualcuno che crede ancora a Babbo Natale, ma esistono sicuramente molte persone che non hanno mai creduto a Babbo Natale ma credono fermamente nell'astrologia; e poi esistono ancora molte persone che non credono a Babbo Natale, non credono all'astrologia, eppure credono alle promesse elettorali e agli annunci trionfalistici del centrodestra. A questo punto, viva Babbo Natale!)

Ma lasciamo perdere la criminologia spicciola e poniamoci un po’ di domande sulla realtà del presente: perché radere al suolo la scuola pubblica? Quali sono le ragioni di un tale accanimento?
Delle tante notizie che si stanno accavallando in questo periodo circa i tagli decisi da Tremonti & Co. per la scuola pubblica, una mi ha colpito in modo speciale: quella di un dossier presentato da un’associazione di genitori che mandano i figli alle scuole private, dal quale risulterebbe che, finanziando con fondi pubblici le famiglie che usufruiscono delle scuole private, si può ottenere un consistente risparmio di denaro pubblico. In sintesi, se buoni scuola e simili iniziative fossero estesi in modo capillare a tutti coloro che potrebbero goderne, una popolazione scolastica stimata in circa 600.000 unità migrerebbe dalla scuola pubblica alla scuola privata, consentendo così il taglio di un numero altissimo di classi e di cattedre. E’ stato stimato che, a fronte di una certa spesa in buoni scuola e contributi vari, lo Stato risparmierebbe una cifra pari a circa 10 volte tanto di stipendi non pagati ai docenti della scuola pubblica.
(C’è da commuoversi pensando al senso civico di questi cittadini comuni, che si preoccupano tanto del bilancio statale e del debito pubblico. Sono assolutamente certo che è stato questo tipo di considerazione a muoverli, e che gli eventuali vantaggi che ne deriverebbero per loro, a danno di moltissime altre famiglie, non li hanno neppure considerati, neanche per sbaglio.)
Che dire? Durante la campagna elettorale, conversando con i colleghi, espressi un’opinione che ritenevo originale ma che, scoprii, è condivisa da molti docenti – e, probabilmente, pesa notevolmente nel determinare le scelte elettorali della maggior parte di noi. Per una parte politica (quella che ha vinto le elezioni e oggi gode di una maggioranza blindata in ambo i rami del Parlamento), la Scuola Pubblica è qualcosa di molto vicino a un tumore da estirpare senza pietà dalla società contemporanea, sia per ragioni strettamente ideologiche (mantiene molti elettori avversari), sia per ragioni economiche. Queste ultime, a mio giudizio le più importanti, sono di due tipi:
1) la Scuola Pubblica ha un costo che grava su tutta la collettività; come tutti gli altri servizi dello Stato Sociale, si mantiene accessibile a tutti grazie alla fiscalità e, in particolare alle imposte dirette, ossia sul reddito (che, prima dell’invenzione dello Stato Sociale, non esistevano o erano trascurabili rispetto a quelle indirette, ossia sui consumi): pertanto, perché la Scuola pubblica continui a funzionare decorosamente, le imposte dirette non possono scendere al di sotto di un certo livello;
(approfitto dell’occasione per far notare un dettaglio che di solito sfugge al volgo, cioè che le imposte dirette, per natura proporzionali e progressive, sono uno strumento di perequazione economica: più si guadagna, più si paga; invece, quelle indirette aumentano la sperequazione tra ricchi e poveri, dato che i secondi sono costretti a consumare tutto il loro reddito per sopravvivere e i primi no; finché sono esistite solo le imposte indirette, le tasse le hanno pagate solo i poveri: se i ministri di Luigi XVI fossero stati così accorti da inventare l’IRPEF o addirittura la famigerata ICI, non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese, oggi la Francia sarebbe ancora sotto la monarchia capetingia e probabilmente sia il re, sia la consorte Maria Antonietta, sarebbero morti di polmonite all’età di 70 anni, senza inutili spargimenti di sangue)
2) la Scuola Pubblica, essendo finanziata direttamente dalle risorse dello Stato, ha un costo bassissimo per i suoi utenti, dunque è in grado di sbaragliare la concorrenza delle scuole private che non potranno mai costare così poco: dunque, la sua esistenza comporta una molto minore potenzialità di guadagno per chi potrebbe investire proficuamente nel campo dell’Istruzione.
Insomma, a dirla in breve, per chi ha i soldi e può altamente strafregarsene dei servizi dello Stato Sociale, l’esistenza della Scuola Pubblica significa imposte in più da pagare e meno possibilità di guadagnare. In particolare, distruggendo la Scuola Pubblica, il sistema dell’istruzione potrebbe diventare simile a quelli delle banche e delle assicurazioni, con prezzi imposti da oligopoli e cartelli, alti finché si vuole e senza alcuna relazione tra qualità del servizio e costo dello stesso. Insomma, ci sarebbe da guadagnare un pozzo di soldi.
Analoghe iniziative – che comunque ci riguardano tutti, anche se al momento non ci sembrano così vicine a noi – sono state avviate per smantellare anche il sistema della Previdenza Pubblica e quello della Sanità Pubblica: in pratica, tutti gli elementi dello Stato Sociale. Alla fine di questo processo, chi vorrà – o, più facilmente, chi avrà bisogno – dovrà solo pagare, pagare, pagare: oppure, rinunciare.
Dunque, quando Padoa-Schioppa affermava che “le tasse sono una cosa bellissima”, non aveva tutti i torti. E’ meglio pagare le imposte alla stessa collettività di cui fai parte e ricevere in cambio i servizi, che pagare direttamente i servizi a qualcuno che deve guadagnare sulla tua pelle: non occorre essere un pozzo di scienza per rendersi conto che, nel secondo caso, si paga molto di più e si ha molto di meno. E non vengano a menarcela con il mercato che fa spontaneamente da regolatore tra domanda e offerta: Adam Smith, che fu il primo a teorizzarlo, escluse tassativamente che si potesse parlare di mercato là dove esistono oligopoli e cartelli: insomma, si tratta di una pura astrazione teorica, molto lontana dalla nostra realtà quotidiana – ormai, se non ci siamo totalmente rimbambiti, dovremmo essercene resi conto.
Allora, se vogliamo davvero preoccuparci della nostra sicurezza e della qualità della nostra vita, lasciamo pure perdere per un po’ i musulmani e gli immigrati e cominciamo (se non è già troppo tardi) a preoccuparci di chi sta mettendo in atto ogni sottile strategia per derubarci di tutto ciò che può avere un minimo di valore nelle nostre esistenze. Personalmente non sono uno storico e neppure un economista, ma facendo qualche ricerca per il semplice piacere di farla, mi sono formato una serie di idee che non promettono nulla di buono.
La prima riguarda la vita media delle persone. Si ha un bel dire che oggi si vive più a lungo di prima grazie ai progressi della Scienza ma, senza nulla togliere ai progressi stessi, l’incremento della nostra vita si deve principalmente all’invenzione dello Stato Sociale, che ha garantito l’assistenza sanitaria di base a tutta la popolazione a prescindere dal reddito e, attraverso la previdenza, la sopravvivenza autonoma degli anziani, non più costretti a gravare sul resto della famiglia. Basta andare a confrontare i dati sulla durata media della vita con quelli sulla qualità dello Stato Sociale, per rendersene conto: dove lo Stato incassa le imposte e eroga i servizi, si vive più a lungo e verosimilmente meglio di dove questo non avviene. Ora, se due più due fa ancora quattro, smantellando lo Stato Sociale, uno dei principali effetti sarà quello di farci vivere meno e peggio. Però, così facendo, spenderemo molto di più e faremo vivere ancora meglio quelli che già hanno tutto e in più anche il superfluo: caspita, che nobile ragione!
Se qualcuno desidera questo, buon per lui: secondo me, è una sciagura e non faccio niente per nasconderlo.

Due parole sulle scuole private. Direi che sono qualificato per parlarne più di quanto i nostri ministri siano qualificati a parlare di qualsiasi argomento, dato che ci ho insegnato per quattro anni. La scuola privata è, di solito, un posto in cui il titolo di studio non si prende ma si compra. Finché si paga la retta e non si provocano troppe difficoltà, si va avanti senza problemi, che si studi o no, che si impari qualcosa o no. La leggenda vuole che le scuole gestite da ordini religiosi offrano una qualità di istruzione superiore a quella della scuola pubblica. Sarà. Ma per offrire un’istruzione di qualità occorre avere dei buoni insegnanti e, per avere dei buoni insegnanti, occorre innanzitutto pagarli. Ora, è vero che gli stipendi della scuola pubblica sono modesti: ma quelli della privata sono anche peggio, per di più a fronte di un carico di lavoro spesso molto superiore e di un livello di sottomissione alla dirigenza incommensurabilmente più pesante. Se uno che può insegnare alla pubblica va alla privata, nessun genitore responsabile dovrebbe affidargli i propri figli, perché è evidente che gli manca qualche venerdì. Ma sono casi rari e trascurabili. La quasi totalità degli insegnanti delle private sogna la scuola pubblica con la stessa intensità con cui io, a diciassette anni, sognavo Debra Winger (“Ufficiale e gentiluomo”) o Karen Allen (“I predatori dell’Arca perduta”) e sono certo che, offrendo al più stimato docente di scuola privata un impiego da bidello in quella pubblica, la probabilità che accetti è pari al 100% o giù di lì. Insomma, mettetevi l’anima in pace: alle private insegnano gli scarti delle pubbliche. A volte (p.es. nel decennio dopo il 1990, in cui non sono stati banditi concorsi ordinari per le medie e le superiori), il livello si alza grazie ai giovani come il sottoscritto che, per mettersi qualche spicciolo in tasca nell’attesa di una sistemazione migliore, sono disposti a cominciare a fare tutto ciò che capita: ma la pacchia dura giusto fino a quando si apre una minimo possibilità di ottenere un lavoro migliore. Quando insegnavo alle private, spendevo una cifra ragguardevole per inviare domande di assunzione dappertutto e partecipavo a tutti i concorsi banditi dalle pubbliche amministrazioni: non c’è stato un giorno, tra quelli trascorsi lì, in cui il mio principale desiderio non sia stato quello di andarmene. E tutti i miei colleghi la pensavano esattamente come me.
Un’altra leggenda, cara agli elettori di destra, è che agli impieghi pubblici si acceda solo per raccomandazione. E’ particolarmente degno di nota il fatto che tra i principali sostenitori di questa teoria ci siano i dipendenti stessi, per l’esattezza quelli che sono anche elettori di centrodestra (categoria che mi auguro sia stata drasticamente ridimensionata dalle iniziative di Brunetta). Parleranno forse per esperienza diretta? Io sono passato per tre amministrazioni pubbliche diverse (un ente locale, un ministero e la scuola), entrando sempre come vincitore di concorso e senza mai essere stato aiutato da nessuno, in nessun modo. Non sarò stato la regola, ma neppure credo di costituire una rarissima eccezione (non vedo, infatti, per quali arcani motivi dovesse toccare proprio a me): la mia esperienza è questa e immagino sia sufficiente a smentire le leggende apocalittiche. Certo, ho dovuto sbattere per anni da una parte all’altra dell’Italia, ma un sacrificio del genere lo avevo messo in conto ed ero abbastanza giovane e determinato per affrontarlo.
Facendo tanti concorsi ho imparato molte cose e messo a punto una teoria su come si vincano. Ci sono, in effetti, due componenti da tener presente: il merito e le circostanze. Il merito consiste nella propria capacità di prepararsi bene e di rendere al meglio delle proprie possibilità. Le circostanze sono di due tipi: quelle non controllabili (che si possono anche chiamare “fortuna”) e quelle controllabili. A quest’ultima categoria appartengono le raccomandazioni, di cui non voglio certo negare l’esistenza.
Riguardo il mio concorso nella scuola, credo di aver vinto grazie al merito per il 95% e alla fortuna per il 5%. Forse mi sto dando un po’ di arie, però non capita sempre di incontrare qualcuno che, pur svolgendo a tempo pieno un altro lavoro (non riguardante il suo campo di studi), continua ad aggiornarsi tenacemente nelle materie che ha studiato, fino a trovarsi addirittura più avanti di quelli che se ne occupano professionalmente. Non ho seguito nessun corso di preparazione a pagamento, mi sono preparato da solo, nel tempo libero, utilizzando tutti i numerosissimi libri che avevo acquistato e letto nel corso degli anni. Il 5% di fortuna si giustifica con il fatto che le tracce delle due prove scritte riguardarono una l’argomento della mia tesi di laurea (peraltro discussa dieci anni prima) e l’altra un tema su cui avevo superato (purtroppo non risultando vincitore) un concorso pubblico di livello direttivo (ma anche questo, ben otto anni prima). Insomma, ebbi due buone carte da giocare e, rendendo al 100% dei miei mezzi, le feci fruttare al meglio.
Ora, non pretendo di mettermi a sostenere che tutti gli insegnanti della scuola pubblica abbiano un simile passato alle spalle, ma è anche vero che, su milioni di persone comunque selezionate (a volte con criteri più rigidi, altre con un certo lassismo), si trovano rappresentate tutte le possibilità: si va dal 95% merito + 5% circostanze non controllabili al 5% merito + 95% circostanze controllabili, ossia il raccomandato-tipo, che però è un caso raro (uno che dispone di simili protezioni, difficilmente si accontenta di un posto da insegnante). Chiamando in soccorso la matematica e, in particolare le curve gaussiane, direi che la maggior parte dei miei colleghi si aggira intorno al valore di 50% merito + 50% circostanze, per lo più non controllabili (anche chi ti può raccomandare, questo lo sanno tutti, ti dice sempre che “verba volant, scripta manent”, quindi il suo intervento si può esercitare sul risultato degli orali, mentre almeno lo scritto devi essere in grado di passarlo da solo: e, se sei in grado di passare lo scritto da solo, l’aiuto esterno ti fa passare davanti a qualcuno ma non fa la differenza tra promozione e bocciatura). Insomma, non sono dei geni, ma neppure da buttare.
E adesso, scusate, mi dite come si selezionano gli insegnanti delle scuole private? Quanto c’entra il merito, quanto le circostanze, quanto le raccomandazioni? La mia opinione è che il merito non sia minimamente considerato: anzi, essere troppo bravo può rivelarsi addirittura un ostacolo, perché potresti non accontentarti dello stipendio di fame e dello stato di schiavitù e andartene alla prima occasione, magari in mezzo all’anno scolastico o sotto gli esami. Quanto alle circostanze, peseranno un poco, ma non certo quanto le raccomandazioni. In Italia, si parla di raccomandazioni solo in riferimento al lavoro pubblico (dove sono una piaga ma non la regola), ma per quello privato sono la regola e nessuno ci trova niente da ridire. E’ noto che i collocamenti potrebbero tranquillamente chiudere senza danni per nessuno, perché il privato assume quasi sempre per conoscenza diretta o segnalazione. I datori di lavoro si preoccupano di verificare la capacità di chi assumono solo se svolge una professione tecnica altamente specializzata, tipo ingegnere: lì devono pagare stipendi come si deve e un investimento sulla persona sbagliata può comportare notevoli danni. Ma un insegnante, suvvia! I nostri adolescenti sono così ignoranti che chiunque abbia abbastanza parlantina e faccia tosta potrebbe permettersi di salire in cattedra: nella mia esperienza alle private, ho insegnato materie di cui fino al giorno prima non avevo la minima idea; preparavo le lezioni in treno, la mattina in cui dovevo tenerle, mentre mi recavo a scuola.
Insomma, se esiste un modo migliore del “buono scuola” per sperperare il denaro pubblico, fatemelo sapere… L’unico vero vantaggio delle private è che più si paga, più si ha, però in termini di baby-sitting, non di istruzione: mai un giorno di sciopero, tempo prolungato all’infinito, attività estive e nelle vacanze... Tanto ai proprietari non costa nulla più del minimo: ci pensano gli schiavi che ci lavorano a tenere in piedi la baracca per quattro spiccioli in più.
Quindi, per osannare la scuola privata come trionfo della libertà e della pluralità dell’istruzione, bisogna avere delle opinioni molto personali su entrambi questi concetti. In democrazia, questo rientra nei diritti di ogni cittadino. Ma, da qui a far pagare alla collettività (anche solo in parte) il diploma comprato dai figli di papà refrattari allo studio, mi sembra che ce ne corra, e tanto.
Il centrodestra ha vinto le elezioni e può governare come vuole, nessuno dice il contrario: ma almeno la smettano di riempirsi la bocca di espressioni come giusta selezione e meritocrazia, che sono esattamente agli antipodi della loro concezione del mondo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Hai perfettamente ragione, ma l'opinione pubblica ormai è in preda al "BerlusconiaNISMO" e forse si dovrà ricredere solo quando ci sarà un nuovo sbarco in Normandia!
Io credo che se il Berlusca dirà un giorno agli italiani che lui è alto 180cm loro risponderanno " è vero! come mai non ce ne eravamo accorti prima?...siamo proprio dei pirla!
I tuoi post sono veramente interessanti e spero che li leggano in tanti.
Ciao